Con durezza, a incaricarsi di rimettere in ordine le priorità, di far slittare il faccia a faccia fra Mario Draghi e Giuseppe Conte e di rallentare i tempi inutilmente impazziti della mezza crisetta di governo innescata dal Movimento 5 stelle, è la tragedia della Marmolada, con le sue vittime e i suoi molti dispersi, e la sua diretta derivazione «dal deterioramento dell’ambiente e dalla situazione climatica», come deve ammettere lo stesso presidente del consiglio raggiungendo Canazei anziché il tavolo delle richieste irrisolte del suo predecessore.

Tutto rimandato di due giorni, a mercoledì alla stessa ora, alle 16 e 30. Rimandato anche il Consiglio nazionale in cui i vertici del movimento dovevano definire il mandato di Conte al tavolo di palazzo Chigi: ovvero il perimetro delle condizioni in base alle quali decidere se continuare a sostenere il governo o se procedere a quell’«appoggio esterno» che altro non sarebbe che una rottura senza il coraggio di dichiararla, confidando sulle probabilità zero di andare al voto anticipato, nonostante le dichiarazioni a mo’ di avviso di Enrico Letta e di Dario Franceschini.

Dal Pd è in corso un intensissimo e collegiale lavorìo di persuasione dei vertici grillini, dietro le quinte, a cui partecipano anche personalità dem da sempre vicine a Conte come Goffredo Bettini, che viene descritto come impegnato «nell’impresa disperata di farli ragionare». Anche il segretario del Pd ha sentito Conte nelle scorse ore. E lo scissionista Luigi Di Maio, il cui nome è in grado di far saltare i nervi all’ex premier, in queste ore tiene un profilo basso, anche lui per dare una mano al governo.

Mercoledì di fuoco

Ci sono dunque due giorni in più per capire come Conte riuscirà a tenere insieme le ragioni dei suoi ammutinati ma anche l’appoggio al governo. A palazzo Chigi, nonostante tutte le incomprensioni, non sono arrivati segnali di rottura vera. Martedì alla Camera, nel primo pomeriggio, verrà annunciata la fiducia sul dl aiuti, che contiene anche i «famigerati» – per l’ala radicale del M5s – poteri del sindaco di Roma per costruire un inceneritore nella capitale (nel frattempo sommersa dai rifiuti come nell’era Raggi).

Lunedì, nel corso della discussione generale, i grillini si sono iscritti in massa a parlare, con tattica considerata dagli alleati quasi ostruzionistica. Discutere in parlamento non ha mai fatto male, ma gli interventi sono stati durissimi, da opposizione. Per domani si annuncia un mercoledì di fuoco. Il giorno in cui Conte sale a palazzo Chigi a chiedere più diplomazia per l’Ucraina e più soldi per le categorie colpite dalla crisi, il movimento si avvia a votare sì alla fiducia sul dl – quindi un sì ancora a Draghi – e invece astenersi sul provvedimento.

Anche se molti deputati del movimento hanno spiegato che non voteranno no a un testo che distribuisce 20 miliardi di aiuti. E però un mese fa il ministro Patuanelli, ex governista trasformatosi in un pasdaràn del ritorno all’opposizione, aveva promesso che in caso di voto di fiducia sul provvedimento si sarebbe dimesso dal suo dicastero. Insomma: il M5s in fondo aveva solo chiesto di non mettere la fiducia, per poter votare no all’inceneritore. Si replicherà poi al senato, dove il presidente ormai non governa più il gruppo.

Letta «media, media, media»

Al Nazareno regna ancora lo sconcerto rispetto alla crisi minacciata. La parola d’ordine del segretario è «mediare, mediare, mediare», oltreché far circolare la «tranquillità» del Pd in caso di voto anticipato. Le parole di Dario Franceschini nelle conclusioni dell’assemblea della corrente Areadem («Se ci sarà una rottura o una distinzione per noi porterà alla fine del governo e all’impossibilità di andare insieme alle elezioni») sono state giudicate «tranchant» ma in linea con le preoccupazioni di Letta.

E opportune, proprio perché vengono da un capocorrente da sempre favorevole all’alleanza «strutturale» con i Cinque stelle, alleanza che Franceschini fino all’ultimo miglio ha definito «ineluttabile» per provare a vincere le prossime politiche. Il ministro è rimasto amico dell’ex premier, e ha parlato con cognizione di causa. Legge elettorale o no, e nonostante le certezze dei consiglieri di Conte – gli stessi che lo hanno mandato a sbattere nella crisi del suo secondo governo – un M5s che rompe con Draghi non sarebbe un alleato possibile per il Pd.

Ma anche senza la rottura il problema resta. Conte non ha via d’uscita: se rompe consegna quel che resta del movimento alle anime radicali, forse direttamente ad Alessandro Di Battista; se non rompe, perderà lo stesso la sua già debolissima leadership interna.

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