La guerra in Ucraina e la minaccia russa all’Europa, la pressante richiesta che da almeno otto anni la Nato invia agli stati membri per accrescere l’impegno militare e, infine, gli avvicendamenti in vista consiglio straordinario Nato del 24 marzo hanno forzato i tempi per una decisione che in condizioni normali o non sarebbe stata presa oppure sarebbe stata almeno discussa in maniera più ponderata. L’Italia aumenterà la spesa militare fino al 2 per cento del Pil, passando dagli attuali 25 miliardi di euro a 38 miliardi. Il parlamento è d’accordo e con un ordine del giorno ha impegnato il governo a farlo.

Il mandato dell’attuale segretario dell’alleanza Atlantica, il norvegese Jens Stoltenberg, è in scadenza a metà anno. Ma l’Alleanza probabilmente prorogherà il mandato di Stoltenberg, per dodici mesi e dunque fino al settembre del 2023. La formalizzazione arriverà al vertice della prossima settimana. In ogni caso, gli aspiranti sono molti, dal segretario Enrico Letta all’attuale ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, fino agli ex ministri Piero Fassino, Roberta Pinotti e Federica Mogherini. Ognuno di essi dietro le quinte organizza la sua campagna.

I rischi 

Sono molti i rischi collegati all’aumento indiscriminato della spesa. Il primo è che sull’onda dell’emergenza e, senza che prima venga elaborata una nuova idea di difesa coordinata con l’Europa commisurata alle nuove esigenze, i soldi aggiuntivi arrivino direttamente nelle casse delle industrie delle armi, a cominciare dall’ex Finmeccanica oggi Leonardo.

La costituzione di un sistema militare europeo è all’ordine del giorno, ma dovrebbe consentire a ognuno dei 27 paesi europei della Nato di spendere di meno, e non di più, per una difesa migliore grazie alle economie di scala, all’unificazione di molte piattaforme e assetti di sistemi d’arma oggi organizzati a livello di singole nazioni.

Soldato trascurato

©Dpa/Lapresse 04-05-2009 Kabul, Afghanistan Esteri Soldati italiani in Afghanistan Nella Foto:soldati italiani utilizzano una fotocamera infrarossi *** Local Caption ***

C’è poi il rischio che soprattutto in Italia l’aumento delle spese militari trascuri per l’ennesima volta i soldati, le loro condizioni di vita e di lavoro. Se invece c’è una cosa che la crisi ucraina conferma è che anche nell’era dei droni e della guerra cibernetica, alla fine sono i soldati che fanno la differenza sul campo.

Quelli italiani non sono trattati bene. Dopo la riforma del 2004 che ha cancellato la leva obbligatoria, quello organizzato dai governi e dalla politica più che un esercito di professionisti è un esercito di precari. Senza mai nominarli, è a loro che si rivolge al punto numero uno la circolare del capo di stato maggiore dell’Esercito che dispone condizioni straordinarie di prontezza operativa per tutti i reparti.

Lo stato maggiore invita a porre «particolare attenzione nel valutare le domande di congedo anticipato». Che tradotto dal gergo militare significa che gli alti vertici temono che in questnon sone condizioni straordinarie di rischio molti di quelli che sono volontari in ferma temporanea possano decidere di lasciare la divisa, per transitare magari nei ranghi dei percettori del reddito di cittadinanza.

L’organico attuale dell’esercito è di circa 95mila unità: 12mila ufficiali, 12.300 marescialli, 7.500 sergenti e poi i soldati, divisi in due categorie, 40mila in servizio permanente effettivo e infine i 24mila volontari, trattati come paria dagli stati maggiori, pagati poco più di 1.200 euro al mese per rischiare la vita da una parte all’altra del mondo in operazioni spesso molto pericolose, come in passato in Afghanistan e Iraq e ora nell’Europa dell’est.

I giovani reclutati provengono quasi esclusivamente dalle cinque grandi regioni del sud (Sicilia, Sardegna, Calabria, Puglia e Campania), non hanno un regolare contratto di lavoro e quando dopo anni e anni di servizio vengono «congedati senza demerito», che è l’equivalente del licenziamento, non hanno nemmeno diritto al trattamento di fine rapporto, cioè la liquidazione.

Dalla riforma della leva in poi, su 250mila giovani chiamati in servizio le forze armate italiane ne hanno espulsi circa 200mila.

Per fare il soldato i giovani devono emigrare al nord perché le caserme sono quasi tutte in quell’area del paese e i 50mila alloggi per i militari che dovevano essere costruiti fin dai tempi del governo di Romano Prodi sono rimasti lettera morta. 

Riforma finta

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Invece di provare a migliorare queste condizioni, la politica sta facendo finta di niente. Dopo un lavoro di preparazione durato due anni è stato presentato alla Camera un testo di riforma del reclutamento militare poi passato all’esame dell’aula.

La nuova legge però è un’occasione persa, non elimina affatto il precariato militare, si limita a semplificarlo. In futuro ci saranno due distinti periodi di ferma per un totale di sei anni: la ferma iniziale triennale e la ferma prefissata triennale al termine della quale in teoria è previsto il passaggio in servizio permanente.

Ma è una presa in giro perché senza un aumento degli organici dell’esercito questo passaggio sarà impossibile. Perfino quando si parla di sindacati ai soldati precari viene riservato il girone di serie B.

Lunedì prossimo all’ordine del giorno della Camera c’è una norma per regolare l’ingresso dei sindacati all’interno delle forze armate dopo che una sentenza della Corte costituzionale lo ha reso possibile. È previsto che i soldati precari possano iscriversi alle varie organizzazioni, ma solo per fare mucchio. È vietato possano assumere incarichi.

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