La deputata leghista Simona Bordonali prende i fascicoli su cui ha preso appunti ed elenca le modifiche presentate da alcuni colleghi del Movimento 5 stelle, Pd, Italia viva e gruppo Misto. Dice che tutte hanno parere contrario. Poi interviene la sua collega Daniela Torto del M5s e dice l’esatto opposto: il parere è favorevole. Così tocca alla viceministra all’Economia Laura Castelli esprimersi, come membro del governo può dire la sua: si associa a Bordonali dicendo di essere contraria. I deputati alzano la mano, compresi alcuni dei partiti di maggioranza, e a sorpresa viene approvata una modifica su cui il governo, in particolare Mario Draghi, non era assolutamente d’accordo. 

È una breve scena di quanto è successo in parlamento mercoledì notte, durante l’esame del decreto Milleproroghe nelle commissioni Affari costituzionali e Bilancio alla Camera. Con quel voto è stato deciso che all’ex Ilva di Taranto non andranno 575 milioni di euro per la produzione di acciaio, previsti dal governo nella versione originaria del decreto.

I relatori contano

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Se si tiene conto che le due deputate, Bordonali e Torto, erano le relatrici di maggioranza si comprendere meglio cosa è successo. I relatori sono le figure che vengono scelte nelle commissioni di Camera e Senato per essere i referenti di una determinata legge e rappresentano l’opinione della maggioranza sulla materia.

Possono presentare emendamenti (le modifiche), partecipare alle riunioni con i funzionari governativi, decidere, insieme all’esecutivo, se una modifica può passare o meno. Hanno un peso molto rilevante nei lavori e cambiano di volta in volta in base a quello che si discute. 

Perché tutto fili liscio i relatori devono esprimersi all’unisono, se una modifica non deve passare devono dare entrambi parere contrario, i partiti di maggioranza si adeguano e seguono l’indicazione. Può capitare a volte che il relatore sia solo uno, ma rimane il fatto che il suo parere non può discordare da quello del governo. 

Si può parlare di crisi?

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Questa prassi consolidata non è stata rispettata durante l’esame del Milleproroghe, il governo infatti è stato battuto ben quattro volte nella stessa serata. E al Senato, la settimana precedente, è successo per tre volte nella stessa seduta dell’aula. La frequenza degli inciampi sicuramente è un segnale del malcontento politico che c’è all’interno dei partiti di maggioranza, è difficile ricordare nell’ultimo decennio votazioni andate male in maniera così ravvicinata.

Eppure prevedere una crisi di governo nel breve periodo appare difficile. Molto difficile. Soprattutto se si tiene conto che la maggior parte delle crisi nella storia della repubblica sono state extra parlamentari, ovvero con premier che si sono dimessi autonomamente a causa di questioni insanabili all’interno della maggioranza, ma senza voti di sfiducia da parte di deputati e senatori.

Certo è che in parlamento perché tutto funzioni c’è bisogno che diversi pezzi coincidano. Ogni camera ha i suoi regolamenti interni, un lungo elenco di disposizioni che normano l’iter che le legge devono seguire per arrivare all’approvazione, come si vota e come possono essere proposti gli emendamenti. A queste se ne aggiungono altre, non scritte, che fanno parte di una prassi consolidata. 

Regole e prassi

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La maggioranza e il governo devono fare in modo che regole e prassi coincidano, altrimenti si rischia quello che è successo nei giorni scorsi. In mezzo a queste due variabili, ce n’è una terza, ovvero la politica che tra le tre è la meno controllabile.

Le commissioni, ad esempio, sono guidate da un presidente, solitamente un deputato o un senatore esponente dei partiti di maggioranza. Questo può decidere a cosa dare la precedenza o meno a seconda di quello che interessa alla maggioranza, ma ci sono stati casi in cui il presidente è stato in grado di rallentare i lavori di una commissione.

Il caso di Francesco Nitto Palma, all’epoca senatore del Pdl eletto presidente della commissione Giustizia di palazzo Madama, è emblematico: per diversi mesi all’ordine del giorno dei lavori della sua commissione veniva riportato un lungo elenco di provvedimenti che non avevano una vera e propria priorità, con i senatori costretti a girare per i corridoi portandosi dietro diversi fascicoli così da essere pronti a trattare qualsiasi provvedimento venisse annunciato all’inizio della seduta.

Nelle commissioni siedono anche i capigruppo dei vari partiti, ogni gruppo ha il suo, e sono di fatto i parlamentari più vicini ai loro leader e che tengono le redini del piccolo gruppo della commissione.

La mediazione dei sottosegretari

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Le variabili sono tantissime. I lavori vengono sempre presidiati da esponenti del governo, innanzitutto i sottosegretari, alcune volte dai viceministri, a cui vengono affidate le singole leggi da seguire dall’inizio alla fine. Fanno le veci del ministro di turno. 

Con loro girano per i corridoi del parlamento decine di funzionari legati al ministero, che monitorano i lavori per capire se possono esserci inciampi o problemi. Non sono politici ma tecnici che riportano al ministro, ai capi di gabinetto e ai capi degli uffici legislativi cosa succede in tempo reale. 

I sottosegretari devono essere molto bravi a mediare nel caso di difficoltà, di richieste politiche da parte di fette consistenti della maggioranza che rischiano di mettere il governo in minoranza, così come a quelle delle opposizioni, che possono muoversi cercando consensi di singoli parlamentari scontenti dei propri partiti.

Come nel caso dei relatori, sono loro ad annunciare i pareri del governo su ogni singola modifica. Nei momenti più importanti delle legislature, come nel caso dell’esame delle leggi di Bilancio che solitamente avviene tra novembre e dicembre, sono chiamati a fare gli straordinari, stanno in parlamento tutti il giorno e, se necessario, anche di notte.

Ci sono due casi che possono essere ricordati. Il primo è quello di Pier Paolo Baretta, ex sottosegretario all’Economia con i governi Letta, Renzi, Gentiloni e Conte II. Lo si ricorda per le innumerevoli sedute delle commissioni, riunioni politiche, incontri con i parlamentari, a cui ha partecipato. L’altro è quello di Enrico Morando, viceministro all’Economia con i governo Renzi e Gentiloni, che si diceva non andasse a dormire per quasi tutto l’iter della legge di Bilancio. Molto preparato sugli argomenti economici e attento a replicare alle richieste dei parlamentati in commissione, anche con lunghissimi interventi in piena notte. 

Durante i lavori del Milleproroghe sono stati quattro gli esponenti del governo che si sono alternati: Laura Castelli, Federico Freni e Alessandra Sartone per l’Economia, Deborah Bergamini per il ministero per i Rapporti con il parlamento. Nonostante questa presenza massiccia del governo le defezioni si sono comunque registrate.

Le defezioni

La maggioranza, così come il governo, deve affidarsi a mille alchimie per evitare problemi. Se un piccolo gruppo di parlamentari di maggioranza decide di staccarsi dalla linea del partito e vota contro o a favore di certe modifiche né il governo né i relatori hanno grandi strumenti per fermarli. In aula l’esecutivo può porre le questioni di fiducia, un voto talmente forte dietro al quale gli interessi di parte spesso vengono accantonati, altrimenti si rischia di far finire la legislatura e andare a voto. Cosa che i parlamentari spesso non vogliono.

Negli anni recenti si ricorda il voto di fiducia posto dal governo Renzi addirittura sulla legge elettorale, l’Italicum, che suscitò grandi polemiche per via del tema, quello elettorale, della legge in votazione. Lo si impose per bloccare eventuali defezioni.

In commissione gli strumenti a disposizione si riducono agli accordi politici e alla persuasione. I voti avvengono per alzata di mano e solo su richiesta si passa alla cosiddetta “controprova per appello nominale”, viene fatto l’appello e ogni deputato vota alzando la mano una volta che viene fatto il suo nome. i voti, però, non vengono mai registrati.

Nel caso del Milleproroghe, ad esempio, il deputato del Pd Andrea Giorgios ha chiesto che venissero registrati ma il presidente Giuseppe Brescia non lo ha permesso perché il regolamento non lo prevede. Per sapere chi ha votato cosa, insomma, ci si deve affidare a qualche buona fonte che ha presenziato alle riunioni.

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