Da bandiera dei Cinque stelle, il fronte caldo della giustizia si sta trasformando nella grande débâcle del Movimento, che apre una frattura sempre più profonda tra parlamentari e ministri grillini, ma anche tra il leader politico Giuseppe Conte e tutto il gruppo degli eletti.

Il ddl penale, il testo che contiene la modifica alla legge sulla prescrizione voluta dall’ex ministro Alfonso Bonafede, è una riforma sostanzialmente blindata. Il presidente del Consiglio Mario Draghi se ne è assicurato, incassando ben due fiducie all’unanimità del Consiglio dei ministri: ci sarà spazio per degli “aggiustamenti tecnici” ma nulla più. Al massimo qualche apertura su dettagli che permettano a Giuseppe Conte di avere almeno qualche argomento per tentare di ammansire i gruppi parlamentari sulle barricate.

All’indomani dell’annuncio sulla fiducia, le tensioni nel partito sono scoppiate in tutta la loro violenza. La ministra grillina alle Politiche giovanili, Fabiana Dadone, ha addirittura ipotizzato la dimissione dei ministri nel caso non si trovi una sintesi soddisfacente: «È un’ipotesi che sicuramente si dovrebbe valutare, ma parlandone prima con Conte».

Una battuta che ha incendiato il dibattito e che ha dato anche la dimensione di quanto il Movimento sia diviso e frastornato. Quasi contemporaneamente, infatti, un altro ministro grillino considerato fedelissimo dell’avvocato di Volturara Appula come Stefano Patuanelli aveva parlato di «ottimismo» e di una discussione che «sta conducendo verso un accordo per migliorare il testo del ddl».

Quale sia la verità, tra le sirene che invitano Conte a uscire dall’esecutivo e la fiducia nella dialettica parlamentare, rimane oscuro agli stessi Cinque stelle. Certo è che il fronte dei ministri, che è stato colto alla sprovvista e si è piegato per la seconda volta alle pressioni di Draghi, è sempre più scollato da quello dei parlamentari: almeno una trentina di eletti sarebbe pronta a votare contro la riforma Cartabia e, secondo gli oltranzisti, i numeri potrebbero aumentare se la trattativa non raggiungesse una mediazione soddisfacente.

Proprio questo complica non poco la posizione del leader: la sconfitta di Conte risulta – almeno sulla carta e agli occhi dei più scettici sulla sua capacità di leadership – tanto più cocente perché era stato proprio lui a salire a palazzo Chigi per fare la voce grossa con Draghi e reclamare modifiche al testo. Il risultato, invece, è stata una apertura a modifiche vincolata all’accordo con tutta la maggioranza, e nessuna concessione specifica. Anzi l’unico elemento che sembrava essere stato incassato, il fatto di non mettere la fiducia in parlamento, è stato smentito: il 30 luglio si voterà il ddl penale senza ulteriori dilazioni per rispettare la roadmap europea, con o senza l’appoggio dei Cinque stelle.

Sconfitto a metà

Anche la minaccia del non voto su cui Conte poteva far leva, infatti, è già stata neutralizzata da Draghi, che ha detto in modo chiaro che la fiducia si chiede appunto su provvedimenti in cui le distanze politiche tra alleati di maggioranza sono risultate «incolmabili». Tradotto: il premier è pronto ad affrontare il semestre bianco facendo affidamento su maggioranze variabili.

Se politicamente la posizione di Conte è molto complicata, la sua partita non è ancora persa. L’asse con il segretario del Pd Enrico Letta è salda e i dem si sono posti come forza di mediazione con la ministra Marta Cartabia per limare il ddl, rassicurati proprio dalla presenza del nuovo capo politico.

Chi lo conosce e conosce la sua storia, infatti, sa che Conte è tutt’altro che un giustizialista: avvocato e professore di diritto, proveniente dallo studio di Guido Alpa, da sempre garantista convinto, è cresciuto da un mondo in cui la mediazione è sempre la miglior strategia. Anzi, in molti si erano stupiti nel vederlo salire sulle barricate in difesa dello stop alla prescrizione e avevano colto in quel posizionamento una pura scelta politica dettata dalla necessità di contrapporsi a Luigi Di Maio, che aveva parlato di “deideologizzazione” della giustizia. Ora, è il ragionamento del Pd, proprio il fatto che la trattativa sia in mano a Conte dovrebbe essere garanzia che una sintesi si troverà, perché in lui non ci sono vere preclusioni culturali e ideologiche a nulla del contenuto del ddl penale.

Tuttavia quello della giustizia è il suo primo vero banco di prova da leader, necessario per affermarsi sia all’interno del Movimento che agli occhi degli alleati, portando i suoi a un compromesso politico che l’implosione del Movimento e lo scontro definitivo tra governisti e malpancisti. Nel frattempo, è certo che a ora il primo sconfitto della scelta di Draghi è l’ex guardasigilli Alfonso Bonafede: suo è il nome sulla riforma della prescrizione, che adesso verrà sostituita – passasse in parlamento – da quella ideata dalla nuova ministra Cartabia. È stato lui a soffiare sul fuoco dell’ira dei colleghi e che più convintamente era pronto a far saltare ogni accordo. Eppure, sembra essere rimasto solo. Tra i più infuocati antagonisti di Cartabia c’erano il suo ex sottosegretario, Vittorio Ferraresi, e Giulia Sarti: entrambi pronti a fare «le barricate» fino a qualche settimana fa, nei giorni scorsi hanno abbassato i toni, parlando di «spirito costruttivo nel dialogo in commissione».

L’interrogativo, ora, è capire se la mediazione già imbastita – norma transitoria per l’entrata in vigore della nuova prescrizione e allungamento a tre anni per l’appello e 18 mesi per la cassazione – basti a placare gli animi nel Movimento. L’onere di far digerire il ddl penale ai suoi spetta a Conte, che così potrebbe completare la mutazione del Movimento in partito, moderato e alleato col Pd.

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