Alessandro Patelli, bergamasco di Cologno al Serio, ha preso la laurea dopo i sessant’anni. Da ragazzo faceva quello che dalle sue parti chiamano el trumbè, l’idraulico. Poi si è dedicato alla politica, diventando il tesoriere della Lega Lombarda, l’ex gruppetto spontaneista inneggiante all’indipendenza del nord che Umberto Bossi ha fatto evolvere in forza di governo.

Se Patelli è diventato celebre, però, è stato per il processo Enimont. Raul Gardini, il socio privato del colosso della chimica, aveva deciso di uscire dal patto con lo stato e, per ottenere un prezzo di vendita vantaggioso, aveva incaricato i suoi uomini di distribuire soldi a tutti i gruppi parlamentari per ammorbidirli.

Nel 1992 Patelli ha ritirato dall’emissario Marcello Portesi, in un bar di Roma, un pacco con duecento milioni di lire (centottantamila euro di oggi). Tornato a Milano, li ha nascosti e dieci giorni dopo –  guarda un po’ la sfortuna – c’è stato un furto mirato nella sede della Lega. Soldi spariti.

In aula, Patelli si è preso tutte le colpe, compresa la definizione di «pirla» affibbiatagli da Vittorio Feltri. Ha sostenuto l’estraneità di Bossi alla vicenda ma la corte non gli ha dato retta, condannando entrambi per violazione della legge sul finanziamento ai partiti.

Quello di Bossi e Patelli, a dispetto di certe sterzate ideologiche, è l’unico partito a processo per tangenti che è sopravvissuto a Mani pulite. È stato perché i leghisti di allora erano visti alla stregua dei primi grillini organizzati nei meetup di vent’anni dopo: un branco di scadregati che si erano messi in testa di aprire il parlamento «come una scatoletta di tonno», per usare il lessico del Movimento 5 stelle.

Il primo deputato (l’architetto Leoni di Mornago) e il primo senatore (Bossi Umberto, perito elettrotecnico di Cassano Magnago) sono stati eletti alle elezioni politiche del 1987: non si erano ancora insediati al potere, non tanto da spartirsi la torta delle mazzette.

Non c’era Internet e i temerari della Lega usavano metodi naïf: tramontato il sole, partivano coi secchi di vernice a imbrattare i muri e i sottopassi delle tangenziali. Già che c’erano, se la prendevano con i terùn e la Cassa del mezzogiorno.

Arrivati alla Camera, non hanno perso le abitudini da festa della birra: il deputato Luca Leoni Orsenigo (antennista di Merate) ha pensato bene di manifestare il suo dissenso contro il sistema corrotto sventolando un cappio.

La vera storia della tangente

Ci credevano, insomma. E anche Bossi credeva in Patelli, tanto da affidargli il tuttora vegeto raduno di Pontida «perché era il paese nel quale c’era stato il giuramento dei comuni che avevano costituito la Lega Lombarda contro il Barbarossa. Ci aspettavamo poche persone il primo anno, il 1989. Invece arrivò un’infinità di persone e capimmo che stava per succedere qualcosa di grosso».

E capitò: la Lega ha cavalcato il malcontento degli imprenditori (era la «Roma ladrona») e quello della gente che mal sopportava la gli immigrati del sud Italia e dei primi stranieri. Gli slogan di oggi pescano dal medesimo frasario: no tasse, no invasione, sì tradizioni, prima noi e una variegata ostentazione di machismo («La Lega ce l’ha duro», soleva urlare Bossi).

Allo scoppio dei primi petardi di Tangentopoli, la Lega Lombarda ha preso più dell’8 per cento a livello nazionale, piazzando ottanta parlamentari. Patelli, non eletto perché preso ad sistemare gli ingranaggi del partito, è diventato il tesoriere e, se è lecito, il Rocco Casalino della masnada leghista in discesa a Roma.

«Non sapevano come fare, né dove andare. Organizzai un pulmino perché non si perdessero. Cercai di mettere su un convitto comune per risparmiare soldi: non come oggi, che ogni parlamentare ha il portaborse. Chiesi a tutti gli eletti di versare quattro milioni di lire al mese sul conto della Lega».

Solo che uno spruzzo dell’onda di Mani pulite ha investito anche i duri e puri della Lega e, adesso che Patelli ha passato la settantina, Bossi l’ottantina e nessuno si offende più, la storia si può raccontare per com’è andata: «Certo che Bossi sapeva di quei soldi e anzi, avevamo già iniziato a spenderli per le elezioni del 1992. Io volevo usarli per le nostre associazioni, rendendoli regolari ex post».

Ma non lo volevano né i Ferruzzi, né Bossi. E quel furto è stato, diciamo così, «una distrazione di fondi». Patelli, tuttavia, non ha vinto il premio fedeltà. Pochi mesi dopo il fatto è stato rimosso.

«Bossi mi contestava di avere manie imprenditoriali ma erano cose giuste: comprammo radio Varese e diventò radio Padania. Arrivai vicino a prendere Telemontecarlo, quella che oggi è La7. Enrico Cuccia firmò l’opzione per il subentro: avevamo tre mesi per esercitarla, c’era già la merchant bank che ci avrebbe finanziato. Alla fine, però, non riuscivo mai a convincere Bossi».

Nei decenni successivi, la Lega avrebbe conosciuto altri tentativi di diversificazione degli investimenti: con un Bossi debilitato dall’ictus sono spuntati il tesoriere Belsito e i diamanti in Tanzania.

Nel 2017, poi, la Lega è stata condannata a restituire 49 milioni di euro di rimborsi elettorali usati per altri fini. Altro che il pacchettino di Patelli. Più recentemente, è affiorata la vicenda dei presunti fondi russi e degli incontri al Metropol con Salvini e Savoini, finora mai accertata: «In Russia ci ero andato pure io, nel periodo di Eltsin. A un certo punto, in un dipartimento geologico, mi fu mostrata una mappa e mi furono offerti dei giacimenti di petrolio: sarebbe bastato scegliere».

Ma Bossi non voleva. «Altre cose non sono mai cambiate: i leghisti attuali somigliano a quelli del 1992, vivacchiano all’ombra del leader. Non ci sono più i pupi e le ballerine di Bossi ma gli amici di Salvini».

Il parlamento ha cambiato pelle: il pentapartito si è estinto, si è provato a innestare un sistema bipolare che non ha tenuto conto dell’italianità degli italiani, quelli dei due partiti verdi e dei tre ex comunisti.

Il Carroccio ha provato a fare l’outsider di lotta e di governo, con fortune alterne. Massimo D’Alema sosteneva che la Lega fosse una costola del movimento operaio: eppure, a sinistra, non c’è mai andata.

«La prima Lega prese i voti dei democristiani delusi. Dalla metà dagli anni Novanta si spostò a destra perché Bossi era la voce delle istanze del popolo. Però lui sapeva sintetizzare anche gli scambi che aveva con economisti e politologi di livello, come Gianfranco Miglio. Oggi, Salvini si confronta con Borghi e Bagnai».

Salvini e la degenerazione

Insomma, Patelli vede nella Lega attuale una degenerazione della sua. «Salvini vuole una federazione del centrodestra ma noi c’eravamo arrivati trent’anni fa: a Paolo Del Debbio, incaricato di Berlusconi, chiedemmo di condividere il programma di Forza Italia e di valutare l’ipotesi di un gruppo unico. Poi però, appena uscirono le liste, Bossi iniziò a sparare addosso a Berlusconi e saltò tutto. Era fatto così, Umberto, non sapeva stare fermo: prima la politica etnico-culturale, poi il regionalismo, poi il federalismo, la secessione, la devolution. Calciava la palla sempre più in là».

Ma Salvini, al massimo, «scimmiotta Bossi, anche negli atteggiamenti» e forse si riferisce alla riproposizione sui social del leader in canotta, «ma gli manca una visione d’insieme. Non puoi andare in tutta Italia a dire le stesse cose che dici al nord. Perdi credibilità e voti. Semmai, e anche qui lo tentammo già noi ai tempi, devi fare accordi con movimenti autonomisti al centro e al sud. La Lega dovrebbe tornare al regionalismo, non rincorrere la Meloni. E parlare con gli elettori: tutti, non solo il segretario che fa il commesso viaggiatore. Ci sono i social? Va bene, ma non puoi sostituirli alla partecipazione».

In spirito ben poco leghista, negli anni scorsi Patelli ha partecipato a un programma di mediazione e inserimento di profughi a Busto Arsizio.

Patelli si mantiene col vitalizio da ex consigliere regionale. Nelle note della tesi di laurea magistrale in scienze politiche, il dottor Alessandro Patelli rammenta, tra i finanziatori della Lega della prima ora, proprio Silvio Berlusconi: lo chiama «mecenate» perché, a parte i soldi, provvedeva a fornire consulenze, supporto logistico, aiuti nelle iniziative editoriali.

Sostiene che Bossi fosse un capo carismatico «che ha saputo coniugare fede nelle sue iniziative, capacità di organizzazione politica e una forte personalità autoritaria», riuscendo così a «rinnovare periodicamente il consenso attorno alle sue proposte senza, però, mai giungere a realizzarle». In quest’ultima abilità, a ben vedere, Salvini pare avere già superato il maestro.

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