Paolo Ciani è il mio compagno di banco. Alla Camera intendo, dove, volenti o meno, talune consuetudini liceali sono destinate a ripetersi fosse solo per le ore passate lì a pigiare i tasti della votazione elettronica.

Compagni di banco, dicevo, il che aiuta a liberare le persone da qualche orpello formale e a coglierne lo spirito più sincero. Questo per dire che la prima intervista rilasciata da Paolo nella nuova veste di vice presidente del gruppo del Pd altro non poteva esprimere che i concetti espressi.

La convinzione radicata che solo un’azione dell’Europa profilata sul perseguimento di una tregua nella guerra d’aggressione della Russia all’Ucraina potrebbe oggi stoppare la carneficina in atto.

Secondo quella logica, interrompere l’invio di armamenti sempre più pesanti a Kiev dovrebbe agire da leva per bloccare un’escalation militare che ha già sepolto centinaia di migliaia di vite e ridotto parti intere di quel paese a una distesa di macerie. Poteva esprimersi diversamente il mio compagno di banco?

Il sostegno inevitabile

Sinceramente no. Cultura politica, appartenenza alla parabola di Sant’Egidio, l’indipendenza rivendicata dentro le liste del Pd alle ultime elezioni e quel sentirsi figlio di un cattolicesimo prossimo all’impianto del pontificato attuale, non avevano altro sfogo possibile che definirsi coerente a quella storia e ai suoi princìpi poco o per nulla negoziabili, soprattutto se si ragiona della pace e della guerra.

Per parte mia sullo stesso tema coltivo molti più dubbi e l’intervista di Paolo non l’avrei sottoscritta. Credo che il sostegno anche militare alla resistenza di un paese aggredito dall’esercito di un altro stato sia un dovere al quale l’Europa e la comunità internazionale, non tutta ovviamente, non possono sottrarsi.

Penso anche che il solo interrogativo sull’eventuale sopravvivenza di una Ucraina indipendente, laddove quell’aiuto non vi fosse stato, dovrebbe incalzare le coscienze di quanti, e non sono pochi, dal principio giudicano eticamente errato il ricorrere alle armi per sanare una ferita al diritto che pure riconoscono tale.

Naturalmente ciascuna di queste convinzioni, o dubbi, ha il dovere di misurarsi con l’altra domanda fondamentale: quando e come questa guerra precipitata nel cuore di un continente di nuovo lacerato potrà concludersi?

Il ritorno di Draghi

Qualche giorno fa ho letto l’intervista al Segretario del Consiglio di sicurezza e difesa ucraino, uno degli uomini oggi alla guida di quel paese. Alla domanda sul costo eventuale del ricorso all’arma atomica ha replicato più o meno così: «La bomba vada a farsi fottere. Di fronte a Satana noi non ci pieghiamo».

È propaganda? Sì, o almeno lo spero. Direi che è anche una rimozione della portata simbolica di uno spartiacque storico datato 6 agosto del 1945. Ma soprattutto la domanda è cosa vogliano dire queste parole nel lessico della democrazia europea di questo nostro tempo.

Me lo chiedo anche per un’altra ragione. Più o meno in contemporanea con le dichiarazioni del mio compagno di banco sulla guerra e le armi, l’ultimo nostro premier, Mario Draghi, ha ricevuto dall’Mit (Massachusetts Institute of Technology) un riconoscimento prestigioso, il premio Miriam Pozen.

Nell’occasione ha tenuto una lectio densa di analisi e commenti preziosi, nello specifico su due capitoli dell’attualità dotati di un legame stretto, il conflitto in Ucraina e il ritorno di un’inflazione mai così allarmante da decenni.

Nello svolgersi del discorso ha scelto la via della massima chiarezza, come è giusto che sia, sino a sancire come non vi sia «alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i suoi alleati che garantire che l’Ucraina vinca questa guerra». E poco più avanti: «Dobbiamo essere pronti a intraprendere un percorso con l’Ucraina che porti alla sua adesione alla Nato».

La terza via

Ora, la domanda che immagino lecita è se l’ipotesi di promuovere a bombardamenti in corso un processo di estensione della Nato sino dentro il perimetro del conflitto che si sta combattendo non implichi una escalation ancora più devastante e prossima – solo dirlo inquieta – a una terza guerra mondiale.

E allora il tema diventa chiarire quale lingua abbia cittadinanza di essere parlata in questo tempo segnato dalla scomunica reciproca di chi utilizza categorie e lessico opposti.

Paolo Ciani si è visto rimbrottato da dentro la comunità che da qui in avanti avrà il compito di dirigere. Ci sta. Siamo pur sempre il Pd e se non avessimo di queste reazioni al fondo non saremmo più noi.

Ma se un ex primo ministro del nostro paese, da noi convintamente sorretto sino a una caduta che non abbiamo potuto evitare, si mostra propenso a pigiare il pedale dello scontro con Mosca sino a non escludere, almeno implicitamente, un crescendo del conflitto in atto da concludersi solamente con una “vittoria” sul campo, è lecito, anche dall’interno del Partito democratico fare appello a quella ragionevolezza che non può spingersi oltre la soglia della sopravvivenza?

Ecco, forse tra il mio compagno di banco e il penultimo inquilino di Palazzo Chigi sarebbe bene che la sinistra si mettesse a cercare una terza via. Che da che mondo è mondo esiste sempre.

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