Ci sono i ricatti immaginari o quantomeno non svelati nei dettagli da Giorgia Meloni. E ci sono i nemici, i poteri forti, messi sotto accusa in ogni occasione perché si muovono nelle tenebre. Sono capitoli essenziali da mettere in primo piano nello storytelling meloniano. Poi di mezzo c’è il paese reale, quello delle 60 crisi aziendali conclamate sul piano nazionale. Così impallidiscono pure le schermaglie politiche, alimentate dagli alleati Lega e Forza Italia con l’avvicinamento della scadenza elettorale di giugno. Perché, in fondo, sono sotto controllo per Giorgia Meloni.

Il fatto diverso del 2024 è che la premier, per quanto abile a pattinare sui problemi e a rigirarli a proprio favore, non può esimersi da un esame necessario per ogni leader: il confronto con i problemi concreti e con il lavoro che manca o quello che rischia di mancare per migliaia di persone. Si tratta dell’Italia dell’ex Ilva o di Alitalia, la compagnia di bandiera che a dicembre ha fatto partire oltre 2.700 lettere di licenziamento, tanto per citare due dei dossier più scottanti. I lavoratori attendono risposte dalla politica. A cominciare dall’esecutivo in carica.

Tavoli al Mimit

Certo, i problemi sono stati ereditati. Ma dopo un anno e mezzo di governo il tempo delle giustificazioni è scaduto, perché la luna di miele non può durare in eterno. Le persone interessate chiedono un’azione concreta. Messa in campo da subito.

L’obiettivo è il minimo, la conservazione di un posto di lavoro al termine delle lunghe vertenze portate avanti durante i tavoli di crisi aperti al ministero delle Imprese e del made in Italy (Mimit), guidato da Adolfo Urso. Al momento ne sono aperti una sessantina, tra quelli in corso e gli altri in “monitoraggio” per cui è stata individuata una potenziale soluzione in attesa dell’effettivo superamento della crisi. Va dato atto che con il nuovo corso di Urso è aumentata la trasparenza per avere il quadro esatto delle vertenze in corso.

Resta, d’altra parte, che i tavoli nazionali sono solo i casi più importanti, in termini di numeri e di impatto: devono possedere precisi requisiti (marchio storico, presenze in più regioni, oltre 250 dipendenti) per approdare negli uffici del Mimit. Per il resto, sparsi per l’Italia, ci sono altre decine di tavoli, con migliaia di posti di lavoro in ballo. La differenza è che le crisi aziendali hanno in questo caso una dimensione locale. E vengono appunto discussi dalle regioni con gli attori interessati. Si tratta pur sempre di posti di lavoro e produzione: oltre agli effetti sui dati ufficiali per la disoccupazione, c’è un risvolto di immagine, una ricaduta che chiama in causa chi governa il paese.
Un puzzle complicato e una potenziale bomba sociale piazzata all’inizio del nuovo anno. Ne sanno qualcosa gli operai dell’ex Ilva dello stabilimento di Taranto come quelli della sede di Cornigliano, a Genova, e di Novi Ligure, ad Alessandria. La presidente del Consiglio non è diretta responsabile dei dossier, ha demandato ai ministri competenti. Ma la partita la riguarda in prima persona: in una direzione o in un’altra, il paese aspetta una soluzione. Non basta il racconto mediatico.

Domani a Palazzo Chigi ci sarà l’incontro sull’ex Ilva che dovrebbe essere decisivo. Ma servirà solo per scongiurare il peggio, non manca la soluzione a lunga gittata. «A oggi il governo si è dimostrato privo di contenuti», ha osservato il deputato ligure del Pd, Luca Pastorino, che sta seguendo da vicino la situazione. «La situazione negli stabilimenti ex Ilva di Taranto è intollerabile. Ogni giorno speriamo che non si verifichino incidenti», spiega a Domani Loris Scarpa, coordinatore nazionale siderurgia per la Fiom-Cgil. Il clima non è propriamente sereno sul punto.

E c’è di più: «Il governo deve spiegare cosa vuole fare sulla strategia di uno stabilimento rispettoso della salute per chi vive a Taranto», insiste il sindacalista.
Intanto si va verso la soluzione-tampone: lo stato dovrebbe evitare la capitolazione totale, rilevando la maggioranza delle quote. Così vincerebbe la linea-Urso, fin dall’inizio favorevole alla nazionalizzazione del colosso siderurgico, che ha affrontato la posizione del collega, Raffaele Fitto, che da ministro del Sud – peraltro pugliese – aveva seguito un’altra strategia per lo stabilimento di Taranto: la ricerca di un accordo con ArcelorMittal per un piano industriale pluriennale. Nel frattempo, però, i lavoratori sono stati a bagnomaria e ancora oggi non sanno quale destino li attenderà in futuro.

Oltre la siderurgia

L’ex Ilva è solo la punta dell’iceberg. Dei circa 60 tavoli di crisi ce ne sono altri aperti al Mimit, sempre nel campo siderurgico. Di mezzo c’è anche la Sideralloys in Sardegna, che rientrerà nel piano nazionale annunciato da Urso durante un incontro con le sigle sindacali. Un progetto che si estende all’intero comparto, abbracciando l’Ast di Terni. «Il ministro non faccia da solo», sottolinea Scarpa, «perché non può essere deciso tutto nelle segrete stanze tra qualche multinazionale e il governo. In questo caso il piano per la siderurgia non sarebbe utile né cittadini né lavoratori».

Il governo deve inoltre individuare una soluzione per la Marelli di Crevalcore. L’azienda ha sospeso la chiusura dello stabilimento, a ottobre. Si cerca una soluzione. In piedi c’è poi la vertenza di Almaviva contact, per cui nel 2023 è stata garantita la salvaguardia dei livelli occupazionali. Non la chiusura finale del caso, che si trascina.

E ancora: resta da risolvere la vertenza della Natuzzi di Bari. L’ultimo incontro al ministero risale a maggio. Nel comparto abbigliamento resta da sciogliere il nodo della Conbipel, in amministrazione straordinaria, per cui nelle ultime interlocuzioni – ad aprile scorso – al Mimit era stata chiesta una maggiore condivisione delle informazioni dell’azienda con i sindacati. Un elenco lungo di la realtà che nel 2024 bussa alla porta di Palazzo Chigi. Meloni può mistificare le stime sulla crescita italiana, sostenendo che è maggiore di quella europea, a dispetto dei numeri forniti dall’Ue. Ma con l’Italia delle crisi aziendali non può bastare qualche numero lanciato a casaccio.

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