Il giorno dopo la sconfitta abruzzese il «campo largo» si ritrova, all’apparenza, al punto di partenza. Il candidato Luciano D’Amico si assume con eleganza la responsabilità della sconfitta. Tutte le forze politiche che lo hanno sostenuto invece lo elogiano e ringraziano. Ma la verità è che ciascun leader dice cose diverse.

Elly Schlein, che può vantare un Pd in rimonta rispetto alle politiche e alle regionali (sorpassa il 20 per cento, contro il 16 del 2022 e l’11 del 2019), prende la scoppola come una spinta ad andare avanti con la coalizione ampia: «A volte si vince e a volte si perde», dice, ma la sconfitta «ci sprona a continuare a batterci con ancora più determinazione per costruire un’alternativa solida in grado di competere con la coalizione delle destre». Giuseppe Conte, deve prendere atto di una batosta pesante (M5s ha preso il 7 per cento, contro il 18 delle politiche e il 24 delle scorse regionali). E se fin qui aveva corretto l’espressione «campo largo» in «campo giusto», ora propone un nuovo slittamento semantico: serve «il campo coeso», dice. «Coeso» non è aggettivo casuale, lo usa anche Giorgia Meloni per la sua parte. In questa campagna elettorale il presidente M5s è stato cinque volte in Abruzzo, «ci ha messo la faccia», come si usa dire. Ma il risultato è stato «modesto» (anche questo è aggettivo suo) e ora la strada giusta è mettersi «sulla scia della vittoria ottenuta in Sardegna, che ci ha portato qualche giorno fa a eleggere la prima presidente di regione M5s della storia, Alessandra Todde. Un segnale da cui ripartire».

Sono parole da leggere con attenzione, e in filigrana. Al Nazareno nessuno mette in dubbio la necessità di un’alleanza con M5s, alle amministrative come alle politiche. Ma i riformisti di Stefano Bonaccini chiedono che in quest’alleanza, accanto alla “sinistra” di Conte, ci sia a pieno titolo anche spazio per la loro area culturale, e spazio per il “centro” di Matteo Renzi e Carlo Calenda. La tesi è comprensibile, ulivista in qualche modo. Anche se ha una prima immediata falla: lo strappo fra Italia viva e Azione ormai è irricucibile, ciascuno procede per la propria strada. Ma c’è un’altra questione che va in direzione opposta a questo ragionamento.

Nel Pd in queste ore c’è chi teme che Conte, umiliato dal tonfo abruzzese, torni quello dei distinguo e degli attacchi al Pd. Che torni a una nuova tentazione identitaria e in solitaria: perché quando M5s va da solo contro tutti, perde ma guadagna qualche punto. Un atteggiamento che potrebbe subito misurare nella ricerca di un nome comune per le vicinissime elezioni in Basilicata (il voto è 21 e 22 aprile, il 21 e 22 marzo si devono depositare le liste, mancano meno di dieci giorni). M5s ha già bocciato il candidato presidente del Pd, Angelo Chiorazzo (che però è in campo da mesi e in queste ore continua la campagna elettorale).

Il Nazareno lavora a convincere l’imprenditore a fare un passo di lato, ma stavolta con tatto e attenzione, per non rischiare di trasformarlo in un nuovo caso Soru (se Chiorazzo corresse in proprio, porterebbe via voti determinanti per il centrosinistra). Ieri sera sono ripartite le riunioni fra Pd e Chiorazzo. Anzi, «non abbiamo mai smesso di lavorare per una soluzione comune», ci viene assicurato dal Nazareno. L’obiettivo è comporre anche in Basilicata un campo «extralarge» modello Abruzzo per tentare di battere l’uscente Vito Bardi, forzista, peraltro ringalluzzito dalla vittoria di Marsilio.

Tridente contro campo largo

Ma bisogna leggere con attenzione quello che dice Conte: che il M5s si deve mettere «sulla scia della vittoria ottenuta in Sardegna» e da lì «ripartire». Intende una cosa precisa: quello che ha sostenuto Todde non era affatto un campo largo, ma piuttosto «un tridente», composto da Pd, M5s e sinistra, principalmente i rossoverdi. Era appunto un «campo coeso».

Conte è stato leale con D’Amico, si è speso molto nella campagna elettorale. Ma nonostante tutto il suo sforzo i suoi elettori non hanno risposto all’appello. Certo, si può dire che alle amministrative i Cinque stelle non realizzano mai grandi performance; e certo, si può dire che le loro erano «liste deboli». Ma, secondo i ragionamenti che in queste ore circolano nel Movimento, c’è una ragione vera e precisa della débâcle: è che l’elettorato grillino apprezza sicuramente Elly Schlein (ricordate quelli che dicevano di averla persino votata alle primarie non capendo che, visto dai riformisti, quello era l’abbraccio della morte per lei?), ma non ne vuole sapere di Renzi e Calenda. E non c’è Conte che tenga, non sono andati a votare.

Calenda fuori campo

Dall’altra parte il ragionamento di Calenda è diverso e opposto. «Ogni elezione regionale fa storia a sé», spiega a Domani, «e alle regionali conta il voto organizzato. Tralascio ogni commento relativo ai fantomatici campi larghi che non esistevano prima e non sarebbero esistiti neppure nel caso di una vittoria in Abruzzo». Per quanto riguarda Azione «l’ho detto in tutte le maniere, se volete posso mettere nel simbolo lo slogan “campo morto”. Il punto è che dove c’è un candidato competente e di valore Azione c’è, altrimenti Azione non c’è». Il discorso si porta appresso un corollario lucano: «In Basilicata dall’altra parte c’è Vito Bardi, un uomo serio. Azione farà una valutazione sulla qualità di un eventuale altro candidato delle opposizioni. Se si trova un buon candidato bene, in realtà se lo condividessimo sarebbe meglio, ma fin qui nessuno si è preso il disturbo di consultarci. Vedremo. Ma certo non resteremo appesi a Chiorazzo».

Chiorazzo è tabù anche per Conte. Ma per lui il punto è anche il formato dell’alleanza. C’è chi racconta che al Movimento siano arrivate molte mail di elettori e attivisti e abruzzesi che si lamentavano dell’alleanza con Azione e Italia viva (che infatti l’ex premier ha tentato di negare nelle interviste). L’elettorato grillino, è la conclusione, «non regge Renzi e Calenda». Questo è valso in Abruzzo, e varrà in Basilicata, anche se si trovasse un candidato comune. E da oggi varrà ovunque: per esempio anche a Firenze, dove dunque meglio sarebbe, almeno al primo turno, restare ben distinti dal leader di Iv.

Questo è il vero dilemma per Schlein e per il Pd. E questo c’è dietro e dentro quello che fra i dem viene generalmente definita «l’inaffidabilità di Conte». Procedere verso le alleanze dunque non basta: bisogna decidere fra il «campo largo» e il «tridente».

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