«Il Senato, udite le comunicazioni del presidente del Consiglio dei ministri, esprime la fiducia al governo». I favorevoli sono 262, 40 contrari, 2 gli astenuti. La mozione con cui la nuova, sterminata, maggioranza vota la fiducia a Mario Draghi è di due righe, stringata come sempre nei casi di fiducia. Solo che stavolta il testo è molto più breve delle firme dei presidenti dei gruppi: Ettore Licheri di M5s, Massimiliano Romeo della Lega, Anna Maria Bernini di Forza Italia, Andrea Marcucci del Pd, Loredana De Petris del Misto-Leu, Davide Faraone di Italia viva, Andrea Causin del Misto-Centro democratico, Julia Unterberger delle Autonomie.

Il discorso

Il presidente apre il suo discorso con «il senso di responsabilità delle forze politiche» alle quali «è stata chiesta una rinuncia per il bene di tutti», con «lo spirito repubblicano di un governo che nasce in una situazione di emergenza», lo chiude con la richiesta di un sostegno «che non poggia su alchimie politiche ma sullo spirito di sacrificio con cui donne e uomini hanno affrontato l’ultimo anno», «l’unità non è un’opzione, è un dovere». Ma in mezzo ci sono croci e delizie distribuite con sapienza a tutti i partiti del sì. Per questo ciascuno deve marcare il suo territorio e sottolineare il suo peso. Già l’inquadratura delle riprese tv dice tutto: per i posti accanto al premier ci sono i turni, anche oggi alla camera sarà così, nulla può essere lasciato al caso.

Al Senato a sinistra di Draghi c’è il pentastellato ministro Stefano Patuanelli, poi si darà il cambio con Luigi Di Maio; a destra Giancarlo Giorgetti. Il leghista di fede draghiana annuisce vistosamente a ogni passaggio in cui il premier allude agli errori del governo precedente: sanità, vaccini, scuola. Si irrigidisce quando Draghi rende omaggio al predecessore Giuseppe Conte: qui il settore M5s applaude con vigore, tutti in piedi, ma la standing ovation non parte, anzi si spegne fra i «buuuh» da destra.

Fuori dall’aula i senatori del sì si sperticano in lodi. A parole. Spariscono anche gli ultimi giapponesi di Conte, nessuno azzarda paragoni fra l’eloquio ampolloso e in cerca di effetto dell’avvocato e le frasi secche e affilate del nuovo premier. Ce n’è una inequivocabile come una sentenza: «Il tempo del potere può essere sprecato anche nella sola preoccupazione di conservarlo».

Quasi un’ora di discorso, un inciampo sui numeri (l’inconscio dell’economista c’è), 21 applausi, quando l’ultimo va per le lunghe chiede a chi gli sta accanto: «Quando posso sedermi?», come chi sa leggere bene dentro tanto entusiasmo.

Altre nomine

Girano i tabulati dei futuri sottosegretari. Ogni nome risponde alla logica di tenuta interna dei partiti. La verità è che più grande è il gruppo parlamentare, più grande è il malumore. Persino Italia viva, dimagritissima nel peso specifico. «Era giusto far cadere Conte? Era giustissimo», ripete Matteo Renzi. Ma anche lui ha dovuto piazzare il suo Faraone in un posto di sottogoverno al ministero del lavoro per cedere la presidenza del gruppo all’ex ministra Teresa Bellanova, la grande esclusa dal governo.

Il pallottoliere dei Cinque stelle balla fino all’ultimo. «Mai dire mai», dice sibillino Nicola Morra, dissidente più chiassoso che di successo, il presidente della bicamerale antimafia che è riuscito a autosciogliere la sua commissione per abbandono delle destre, causa i suoi attacchi postumi all’ex presidente della Calabria, la defunta Jole Santelli.

Ma i «tormenti interiori» (copyright senatore Marco Pellegrini) dei Cinque stelle sono noti. Sono i nuovi guai del Pd a tenere banco. I dem chiedono nove sottosegretarie su dodici. Ma la questione femminile è già consumata. La polemica di giornata è sull’intergruppo delle forze della ex maggioranza giallorossa su cui ora nessuno si assume più la paternità. L’iniziativa nasce da Loredana De Petris e Vasco Errani (Leu) come aiutino offerto al capogruppo M5s Ettore Licheri per trattenere i transfughi. Fonti dem attribuiscono la scelta anche a Andrea Marcucci.

Il Nazareno applaude poi, visto il vespaio suscitato, attenua l’entusiasmo e anzi pensa a una mezza trappola. Alla camera l’idea viene accolta da un fuoco di fila di no. Anche il senatore Luigi Zanda è perplesso: «Non ne sapevo nulla», spiega, «nell’assemblea del gruppo Marcucci non ha parlato di intergruppo», si chiede come sarà declinato, perché, ironizza, «se dopo il nostro intergruppo dovesse nascere, lo dico per paradosso, anche un intergruppo tra Lega e Forza Italia, avremmo fatto proprio un bel successo».

Il segretario Pd Nicola Zingaretti fa ancora una volta la parte del responsabile: «La sfida è che forze anche alternative nel nome di questa emergenza per una fase e intorno ad obiettivi precisi indicati oggi da Draghi collaborano. Pensare di vivere in democrazia annullando le identità delle forze politiche sarebbe uno sfregio».

Oggi si ripete alla camera. Il fatto è che Draghi vola alto, cita Cavour sulle riforme e papa Francesco, sull’ecologia, «le tragedie naturali sono la risposta della terra al nostro maltrattamento», promette un mondo migliore da lasciare ai posteri. Il problema sta quaggiù a terra, nei tanti dossier lasciati aperti sul tavolo del governo. Su ognuno la maggioranza rischia l’inciampo.

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