Stavolta, per il secondo decreto per l’Ucraina, quello che fra le altre cose stabilisce l’invio in Ucraina di armi «di difesa» – cioè non solo gli equipaggiamenti «non letali» stabiliti dal primo decreto, quello del 25 febbraio – è Mario Draghi a convincere i dubbiosi. E i pacifisti, anche e soprattutto quelli dell’ultima ora. Prima del Consiglio dei ministri la diplomazia di palazzo ha lavorato a spron battuto. Ci sono stati due movimenti paralleli e convergenti: ma il primo, quello che aveva la massima precedenza, si muoveva da palazzo Chigi verso le forze politiche; l’altro è ancora alle camere, per la stesura di una risoluzione comune alle comunicazioni che farà lo stesso Draghi oggi al parlamento (alle 10 al Senato e alle 15.30 alla Camera). In vista del Consiglio dei ministri, il premier non ha lasciato niente al caso.

Qualsiasi dissenso importante nel parlamento, non solo dentro la sua maggioranza, avrebbe rischiato di indebolire la posizione dell’Italia, già non considerata solida e reattiva dalle cancellerie europee. Prima della riunione Draghi ha chiamato Matteo Salvini. Il leader della Lega ha assicurato di allinearsi, e così infatti hanno fatto i suoi ministri; ha «digerito» le sanzioni. In ogni caso ha continuato a esprimere perplessità sull’aiuto militare tramite l’invio di armi.

Da Assisi, città scelta come pulpito non casuale da un leader poco in confidenza con il pacifismo francescano, ha citato il papa e ha spiegato che «in questo momento urge tornare alla pace. Bisogna calibrare ogni proposta che ci deve far pensare se l’avvicina o l’allontana». In serata, una nota di partito ha ribadito che «la Lega voterà le mozioni unitarie sia a Roma che a Bruxelles» sempre nell’auspicio che «alle bombe si sostituisca la diplomazia».

Draghi, al telefono, si è assicurato il voto positivo al Consiglio dei ministri e poi quello di oggi in parlamento. Ha fatto altrettanto con Giuseppe Conte, il presidente del M5s, l’altro leader politico che ha registrato mal di pancia nei propri gruppi parlamentari.

Da palazzo Chigi viene spiegato che il decreto non poteva aspettare, né si poteva girare intorno alla questione delle armi: «C’è una guerra in corso», si sono sentiti dire i due al telefono. Non si può rischiare che la decisione dell’Italia arrivi troppo tardi, sarebbe fatale per il nostro paese che l’aiuto «concreto» fosse deciso dopo l’eventuale presa di Kiev da parte dei russi. Anzi, la decisione italiana deve essere un elemento di pressione sul tavolo del negoziato tra Ucraina e Mosca.

La deroga

Ma per autorizzare la scelta dell’invio di armi «di difesa» tramite un decreto interministeriale serve un voto del parlamento. Il testo della risoluzione unitaria che sarà approvata oggi deve rappresentare anche quel voto. La trattativa è istruita da un grande esperto di questioni estere come Piero Fassino, presidente della commissione Esteri di Montecitorio.

L’esponente del Pd ha sentito tutti, quelli della commissione nei giorni scorsi e ieri mattina ha partecipato alla riunione dei capigruppo. Il testo comune per la risoluzione è quasi una certezza. Avrà il sì anche delle opposizioni, del resto quello di Fratelli d’Italia è già arrivato nel fine settimana.

La bozza disegna una posizione ampio raggio: contiene «condanna dell’attacco all’Ucraina da parte della Federazione Russa»; esprime «solidarietà con il popolo ucraino» e «disponibilità all’accoglienza dei profughi con relativi provvedimenti», dice sì a «misure drastiche in generale e alle sanzioni in particolare» ma anche alla necessità del «sostegno alle imprese colpite dagli effetti della guerra in corso»; e infine alla «necessità di continuare a perseguire ogni tentativo per una soluzione politico-diplomatica».

Ma, appunto, c’è il nodo dell’invio delle armi, in linea con quello che stanno facendo altri paesi europei. Il Pd è il più convinto della scelta; sin dal primo giorno dell’invasione russa il segretario Enrico Letta predica «una mano concreta» alla resistenza ucraina. Il partito è compatto: «La situazione è di straordinaria urgenza e senza precedenti», spiega il senatore Alessandro Alfieri, «il nostro appoggio non può essere fatto solo di sanzioni e parole. Quello che fino a qualche giorno fa tutti noi ritenevamo impossibile ora deve essere possibile».

Toni drammatici che servono a motivare una deroga che appunto si trova nel decreto: una «norma abilitante» che, dopo una la risoluzione delle Camere, consente al ministro della Difesa di adottare un decreto interministeriale per la cessione alle autorità governative dell’Ucraina di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari.

Si tratta di una deroga alla legge 185 del 1990, quella che all’articolo 6 vieta «l’esportazione e il transito di materiali di armamento» verso «i paesi in stato di conflitto armato», appunto «fatto salvo il rispetto degli obblighi internazionali dell’Italia o le diverse deliberazioni del Consiglio dei ministri, da adottare previo parere delle Camere». C’è uno strappo alla regola, insomma, ma Draghi lo ha concordato con tutte le forze politiche: il parere delle camere arriverà contestualmente alle risoluzioni di oggi.

Gli scettici

Conte deve convincere una parte dei suoi. Ad esempio il presidente della commissione Esteri di palazzo Madama, Vito Petrocelli: «Non voterò qualsiasi provvedimento che dovesse decidere l’invio di armi letali all’Ucraina, come risposta all’operazione folle di Putin, che ovviamente condanno». In serata arriva a dire che il parlamento «è stato preso in giro. Il governo avrebbe dovuto rispettare la volontà degli eletti prima di arrivare a qualsiasi determinazione». Dal gruppo arrivano parecchie richieste di lasciare libertà di voto, ma Conte ribadisce che «siamo compatti in una posizione di assoluta responsabilità».

È perplessa anche Loredana De Petris, presidente del gruppo misto del Senato e voce di Leu: è il ministro Roberto Speranza a promettere di convincerla. Il Pd invece sfida alla coerenza la Lega: «Quindi in materia di sicurezza per Salvini si può anche sparare alla schiena, purché sia legittima difesa, e non ci si può difendere da un aggressore straniero che ti ammazza con missili e tank?», chiede Enrico Borghi, responsabile politiche sicurezza dem.

In realtà è chiaro che dietro il pacifismo di Salvini c’è soprattutto la questione dei rapporti fra il suo partito e quello di Putin, Russia unita: un contratto di collaborazione politica e «scambio di informazioni», formalmente stretto nel 2017. Sulla carta doveva scadere nei prossimi giorni, ma secondo il Foglio nessuno ha mandato la disdetta, dunque si rinnoverà automaticamente il prossimo 6 marzo. Salvini nega l’innegabile: «Non c’è nessun rapporto», dice, «Ci sono Renzi, Letta, Berlusconi che hanno incontrato, giustamente, Putin decine di volte. Io l’ho incontrato una volta sette anni fa».

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