Bella ciao è diventata una delle canzoni italiane più famose al mondo, con Volare e O’ sole mio. Di questi tempi, forse, è la più conosciuta, anche grazie al successo della Casa di carta, serie tv spagnola che l’ha scelta come brano di punta, e alle nuove versioni che ne sono seguite (dalla tecno al rap, con centinaia di milioni di visualizzazioni).

Ma, prima ancora di questo revival, Bella ciao era stata già cantata e reinterpretata in tutti i continenti e in ogni angolo del mondo, in decine di lingue diverse (una novantina, secondo il sito antiwarsongs.org, fra cui tutte quelle più parlate). La sua forza come simbolo di chiunque lotti per la giustizia, la libertà, o l’ambiente, è cresciuta negli anni.
Nel 2012, in Belgio, sulle note di Bella ciao è stato composto un inno per l’ambiente, Do it now, che è stato adottato anche dai Fridays for Future. Nel 2018 Marc Ribot e Tom Waits ne hanno inciso una cover in inglese, struggente, dolorosa: One fine morning I woke up early, found the fascists at my door («un bel mattino mi sono alzato presto e ho trovato i fascisti alla mia porta»). Nel video quel fascismo ha il volto di Donald Trump. Negli scorsi mesi è diventata l’inno delle ragazze iraniane che lottano contro l’oppressione religiosa. 

La scorsa settimana i delegati della Cgil presenti al congresso di Rimini l’hanno intonata, in segno di protesta, prima che la premier Giorgia Meloni prendesse la parola dal palco.

A differenza di altri inni come La marsigliese e L’internazionale, però, le origini di questo canto di lotta e di amore sono avvolte nel mistero. Chi l’ha scritta? Quando? Abbiamo ipotesi, che ne aumentano il fascino: Bella ciao sembra il frutto di una silenziosa opera collettiva, che unisce nord e sud della penisola (dal Piemonte al Veneto, all’Abruzzo), che lega la lotta dei partigiani con le battaglie delle donne (le mondine, costrette a durissime condizioni nelle risaie).

Due film, due tesi

Di recente sono stati pubblicati due docufilm che, oltre a riflettere sul grande successo della canzone, presentano tesi, in sostanza opposte, sulla nascita. Uno è Bella ciao – Song of Rebellion, realizzato dalla giornalista e regista indipendente Andrea Vogt e uscito a fine 2021; l’altro è Bella ciao – Per la libertà, curato da Giulia Giapponesi e prodotto da Palomar e Rai (è disponibile anche su RaiPlay), successivo di alcuni mesi.

Le due opere sono complementari perché, con l’eccezione dell’etnomusicologo e storico Cesare Bermani (comune a entrambe), si avvalgono di “consulenze” diverse. Song of Rebellion si avvale, fra gli altri, di Fausto Amodei, il primo a registrare nel 1963 la versione di Bella ciao che conosciamo e autore egli stesso di una delle più belle canzoni popolari italiane (Per i morti di Reggio Emilia, 1960), e di Giovanna Marini, senz’altro la principale esponente della tradizione di musica popolare in Italia. Per la libertà, ha coinvolto figure più note al grande pubblico come Vinicio Capossela e Moni Ovadia, oltre allo storico Marcello Flores.

Ma sono complementari anche perché, se la prima scava meglio sulle radici e le origini del brano, la seconda offre allo spettatore un quadro molto più ampio sul successo di Bella ciao oggi nel mondo. I docufilm, però, sono, come inevitabile, anche concorrenti. E soprattutto sono contrapposti, quanto al tema centrale: chi ha composto Bella ciao? Quando?

Cominciamo con le informazioni meno incerte. Bella ciao mette insieme diversi motivi della canzone popolare, sia nella musica che nel testo. Il ritornello, così efficace, ha origini in una antica canzoncina infantile del nord Italia, molto popolare (La me nòna, l'è vecchierèlla/ la me fa ciau, la me dis ciau, la me fa ciau ciau ciau). L’incipit, invece, è identico a quello di una canzone yiddish, Koilen, registrata da un fisarmonicista zigano di origini ucraine, a New York nel 1919: sono però pochi secondi, potrebbe essere una coincidenza, dato che (lo spiega bene Giovanna Marini in Song of Rebellion) l’attacco su una scala discendente è piuttosto comune, a partire dalle linee melodiche tramandateci dal mondo greco.

Il risultato è una musica di grande impatto, e anche molto versatile, cosa che certo ha contribuito alla sua diffusione: Bella ciao può essere infatti, a seconda dei casi, dolorosa o allegra, lenta o ballabile (difficilmente invece, per esempio, L’internazionale può essere trasformato in una marcetta).

Secondo la tesi più accreditata, la versione melodica finita si ritrova già negli anni fra le due guerre: è la cosiddetta Bella ciao delle mondine, uno struggente canto di lavoro diffuso nelle risaie padane. Verrà incisa per la prima volta nel 1965 da Giovanna Daffini, lei stessa ex mondina, per il gruppo del Nuovo canzoniere italiano»: Alla mattina appena alzate /o bella ciao bella ciao bella ciao, ciao, ciao /alla mattina appena alzate /laggiù in risaia ci tocca andar (e qui il «bella ciao» fa riferimento alla giovinezza che se ne va, nel tempo impegnato da quel lavoro massacrante, alla bellezza che sfiorisce). Canto sociale, di lotta e rivendicazione, prosegue poi narrando la vita delle mondine (Fra gli insetti e le zanzare / il capo in piedi col suo bastone / e noi curve a lavorar), forse nel mondo contadino le lavoratrici più sfruttate e vessate in assoluto; per concludersi con l’auspicio, Ma verrà il giorno che tutte quante / lavoreremo in libertà.

Guardando al testo, si capisce quindi che solo l’esordio è comune a entrambe le versioni, deriva probabilmente dalla canzone popolare veneta Stamattina mi sono alzata. Nella variante dei partigiani, il seguito riprende invece la struttura di un canto popolare piemontese attestato già nell’Ottocento, Fior di tomba, ma di cui esiste una versione popolare anche in trentino (Il fiore di Teresina) e la cui origine è addirittura una canzone francese della fine del Quattrocento, La Pernette: nata in Normandia, si è poi diffusa in tutta la Francia, e da lì in Piemonte, soprattutto, e nel centro e nord Italia, ma anche in Catalogna. Seppelliteci tutti e due sul cammino di Saint Jacques, canta Pernette innamorata di Pierre che non può sposare, Coprite Pierre di rose, e me con mille fiori.

Ma come prende forma a un certo punto la Bella ciao partigiana? È soprattutto qui che le storie divergono.

La nascita della Bella ciao partigiana

Il documentario della Rai dà ampio risalto alla tesi secondo cui Bella ciao, almeno per come la conosciamo oggi, sarebbe stata composta in un’epoca successiva alla guerra di Liberazione. La versione a noi nota comparve la prima volta a Praga, nel 1947, durante il primo Festival mondiale della gioventù democratica (organizzato dalla Federazione mondiale della gioventù democratica, legata al mondo socialista e comunista), dove venne cantata da un gruppo di giovani partigiani venuti dall’Emilia.

La prima testimonianza scritta dell’attuale testo è del 1953, sulla rivista di storia e letteratura popolare La Lapa, mentre nelle voluminose raccolte di canti partigiani dell’epoca non viene nemmeno citata. In sostanza Bella ciao sarebbe un’invenzione postuma: i partigiani non la cantavano, se non in alcune varianti molto poco diffuse.

Fra queste, si dà testimonianza di una versione ascoltata ad Alba, in Piemonte, durante il periodo della Repubblica partigiana (dal 10 ottobre al 2 novembre 1944), voltata al femminile (Una mattina mi sono alzata e ho trovato l’invasore) e poi con la seconda e terza strofa diverse, ma molto toccanti: O mamma mamma, io vado ai monti / o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao / o mamma mamma, io vado ai monti / a vendicare il mio amore / Il mio amore me l’hanno ucciso / o bella ciao, bella ciao, bella ciao ciao ciao / il mio amore me l’hanno ucciso / perché era un partigian. Si tratta però di una testimonianza orale, raccolta solo dopo il successo della canzone.

La produzione indipendente Song of Rebellion, che pure è di qualche mese precedente, risulta più approfondita e aiuta a fare chiarezza. Cesare Bermani qui spiega che la prima versione della Bella ciao delle mondine si deve a Rinaldo Salvatori, un paroliere e canzonettista toscano che intorno al 1935-36 «scrisse sei o sette Bella ciao, a seconda dei contesti» e molte altre composizioni (comprese diverse canzonette fasciste, forse anche per farsi perdonare la Bella ciao delle mondine che era malvista dal regime).

Non è escluso che fra queste diverse Bella ciao ve ne fosse anche una in versione patriottica, cioè con «patriota» al posto di «partigiano» (che in realtà forse calza anche meglio con il resto del testo, non ditelo a Giorgia Meloni).

Se questa fu la nascita, sulla sua diffusione, attestata già all’epoca della Resistenza, nello stesso documentario si fanno ancora due ipotesi. Una racconta che la Bella ciao delle mondine venne riportata in Abruzzo alla fine degli anni Trenta dalle lavoratrici stagionali, che emigravano temporaneamente al nord per guadagnarsi da vivere nelle risaie.

Da loro venne poi trasmessa ai partigiani della brigata Maiella (il presidente della Fondazione brigata Maiella, Nicola Mattoscio, spiega che esiste nell’archivio una lunga versione di Bella ciao, con un testo diverso da quello che conosciamo). Dopo aver contribuito a liberare l’Abruzzo, la brigata Maiella non si sciolse ma venne integrata nell’esercito regolare e, risalendo la penisola, avrebbe diffuso la canzone nelle regioni del centro Italia e poi in Emilia-Romagna, che contribuì a liberare.

Un’altra ipotesi ne colloca invece la nascita fra la Toscana e la Liguria e ne attribuisce poi la diffusione alle brigate Garibaldi che operavano nel centro Italia. Sempre in Song of Rebellion, il partigiano garibaldino Paolo Orlandini testimonia di avere ascoltato Bella ciao a Filottrano, in provincia di Ancona, durante un’azione nel febbraio 1944, e poi ancora il mese successivo: il merito sarebbe di Ivo Rotelli, il commissario politico della sua brigata che, racconta Orlandini, l’aveva imparata a La Spezia, durante un corso da commissario politico. Arrivato nelle Marche, «la insegnava a tutti». Da notare che Orlandini aveva rilasciato questa testimonianza già alla fine della guerra, prima quindi del successo internazionale della canzone.

L’esistenza della Bella ciao partigiana all’epoca della Resistenza parrebbe certa, quindi, suffragata nel film anche da altre testimonianze. La circostanza che fosse fra le canzoni cantate dai gruppi del centro Italia (e non invece dai più numerosi gruppi del nord che opereranno poi dietro la linea Gotica) può contribuire a spiegarne la scarsa diffusione durante la Resistenza, e quindi il fatto che alcuni abbiano potuto pensare che fosse successiva alla Liberazione. La versione di Alba, di cui si narra nel documentario Rai, posto che sia mai esistita, potrebbe derivare anch’essa da un innesto con la Bella ciao delle mondine (infatti è al femminile).

Dal mondo all’Italia, dall’Italia al mondo

La storia di Bella ciao ha però anche un’altra peculiarità. Dopo il suo debutto mondiale a Praga, nel 1947, e dopo che, da lì, ha cominciato a essere tradotta e cantata in diverse lingue specialmente nel mondo comunista, in Italia è rimasta ancora per molti anni poco conosciuta.

Quando finalmente è stata incisa da Fausto Amodei, nel 1963, la canzone ha raggiunto subito la notorietà. Quasi contemporaneamente è stata interpretata, in italiano, anche dal popolare cantante francese Yves Montand, originario peraltro di un paesino toscano a nord di Firenze (da cui i genitori comunisti emigrarono a piedi, nel 1923, rifugiandosi a Marsiglia).

Erano quelli gli anni del risveglio della canzone popolare italiana, e non solo italiana, dopo un lungo torpore. Erano gli anni del Cantacronache, un collettivo di musicisti e scrittori fondato a Torino nel 1957, animato fra gli altri proprio da Fausto Amodei, oltre che da Michele Straniero, Sergio Liberovici e Margot (ma vi parteciparono anche Italo Calvino, Gianni Rodari, Umberto Eco), e che si può considerare precursore della canzone d’autore in Italia.

Da lì, si arriva al Nuovo canzoniere italiano, fondato a Milano nel 1962 soprattutto per iniziativa di Gianni Bosio e in origine legato alle edizioni dell’Avanti! (vi confluiranno anche diversi fra i Cantacronache).

È da questo gruppo che Bella ciao viene portata al successo. Lo spettacolo intitolato proprio Bella Ciao, messo in scena a Spoleto nel 1964, ha avuto molto risalto sulla stampa “grazie” alla forte opposizione dei gruppi di destra (il racconto di Giovanna Marini della rissa che si scatenò a teatro, dove fra il pubblico sedevano molti membri della locale accademia militare pensando di ascoltare canzoncine di guerra, è il momento più spassoso di Song of Rebellion).

Bella ciao si afferma quindi all’alba di quella grande stagione che, a partire dagli anni Sessanta, vedrà il fiorire della canzone d’autore in Italia. È un anello di congiunzione fra il mondo che verrà e le sue radici popolari, sociali, antifasciste. Ma non solo. Meno politico di altri canti, senza riferimenti espliciti e per questo “pacificatore”, Bella ciao è anche il simbolo di una memoria condivisa della Resistenza che vorrebbe accomunare tutti gli italiani, purché antifascisti: va bene anche per la nuova stagione di centro-sinistra che, con l’alleanza fra Democrazia cristiana e Psi, si inaugura proprio in quel periodo.

Cantata presto anche da Milva (1965) e Giorgio Gaber (1965), da allora diviene la canzone simbolo della Resistenza, superando la più popolare (ma più schierata) Fischia il vento (che parla di una rossa primavera, di una rossa bandiera). Dall’alleanza con il Psi a quella con il Pci, Bella ciao ha le carte in regola anche per diventare la canzone simbolo del compromesso storico, negli anni Settanta: non a caso, nel marzo 1976 fu cantata a chiusura del XIII congresso della Democrazia cristiana, segretario Benito Zaccagnini.

Forse anche questo suo essere apartitica, e per certi aspetti perfino apolitica (o meglio: pre politica), contribuisce, assieme alla bellezza e alla versatilità musicale, a spiegarne il successo internazionale: per il suo potersi adattare, anche nel messaggio di fondo, a ogni contesto di lotta, senza legarsi a un’ideologia definita, se non in termini vaghi la battaglia contro quel mostro che è stato il nazifascismo (il peggior mostro partorito dall’uomo).

Inno di comunità come del singolo in rivolta, delle masse avanzanti come dell’ultimo ingranaggio; in un’epoca in cui, a differenza che nel passato, si fa fatica a trovare un’idea unificante per le diverse lotte di emancipazione.

P.s. E Laura Pausini che, in Spagna, si è rifiutata di cantarla perché «politica» e «divisiva»? Al di là della probabile gaffe (gli autori del programma forse pensavano di farle un assist), un’artista ha tutto il diritto di non voler cantare una canzone, qualunque essa sia (è anche per questo che abbiamo sconfitto il fascismo!). Sarebbe bello però se la più famosa cantate italiana al mondo conoscesse almeno la storia di questo canto, anch’esso italiano, ormai universale. La conoscenza dovrebbe essere la premessa di ogni scelta.

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