«È una giornata bellissima» dice la ministra Daniela Santanchè ai cronisti mentre fende in direzione bouvette la sala Garibaldi, il transatlantico di Palazzo Madama, tailleur gessato blu che fa un po’ boss, alla mano una Kelly bianca in pendant con le righine, scelta da una sontuosa collezione, trattasi di Hermès, una vale un Tfr degli lavoratori della sua azienda.

A ora di pranzo la mozione di sfiducia contro di lei è appena stata asfaltata, 111 no a 67, risultato scontato. I colleghi di maggioranza l’hanno difesa, mezzo governo è stato precettato a ostentare compattezza al momento dell’urto con le opposizioni.

Anche lei stessa parla – la premier Giorgia Meloni le aveva fatto arrivare il consiglio di non farlo –, attacca lo «pseudo-giornalismo»: ce l’ha con Domani che il 5 luglio, giorno della sua informativa al Senato, ha rivelato un avviso di garanzia che lei non aveva ancora ricevuto.

Ma che da tempo lei sapesse dell’inchiesta a suo carico lo danno per certo le opposizioni, e anche i suoi, su su fino a Palazzo Chigi. Per questo «ha mentito al Senato», dicono M5s e Pd. Finita la performance i ministri se la squagliano; e per qualche minuto reso eterno dai fotografi lei resta sola.

Difesa a tutti i costi

È la vera immagine della giornata. L’hanno difesa sapendo che è indifendibile, sapendo che, sospira poi un forzista di rango «anche questa l’abbiamo fatta, se ne riparla a settembre», intende che il caso Santanchè per Meloni si riaprirà all’eventuale arrivo di un rinvio a giudizio. Insomma: ieri mattina al Senato nulla di quello che appare corrisponde alla realtà. Le parole non tornano con le immagini.

La difesa è d’ufficio: la mozione, ripetono tutti, è basata su vicende precedenti al ruolo di ministro, riguardano «l’imprenditore» Santanchè, un imprenditore «modello» peraltro, dice con sprezzo del ridicolo Pierantonio Zanettin, senatore di Fi e anche avvocato. E la compattezza del governo è solo apparenza: accanto a Santanchè restano per un po’ la ministra Bernini e Matteo Salvini, che però si dimentica di applaudirla.

Di Fratelli d’Italia ci sono i ministri Musumeci e Fitto, l’accorto ministro dei rapporti con il parlamento Luca Ciriani sente spesso la necessità di uscire dall’aula. Anche gli argomenti parlano d’altro.

La forzista Licia Ronzulli se la prende con il giustizialismo, il leghista Massimiliano Romeo attacca la «mossa politica fantastica» di M5s e Pd «avete rafforzato il ministro, la premier Meloni e diviso l’opposizione».

Lo aveva già detto Zanettin: «La mozione di sfiducia è un’iniziativa non concordata, appoggiata a posteriori dal Pd e dal suo segretario, dimostrando che il Pd ha un ruolo ancillare e subalterno rispetto al M5s». Ma poi a un collega del Pd che lo canzona per «l’arringa deboluccia», Zanettin risponderà allargando le braccia: «Non potevo neanche appellarmi alla clemenza della Corte, ho chiesto il minimo di pena». Dunque, in realtà, la giornata di Santanché non è affatto «bellissima».

La destra cerca di ributtare alle opposizioni la palla avvelenata, spinge sul tasto delle divisioni, c’è un M5s scatenato in aula («Ridete, pagliacci», strilla Ettore Licheri, «buffone, miserabile», gli urlano).

Che una mozione sconfitta in partenza sia un boomerang, un aiuto alla ministra che invece balla, è anche l’argomento con cui Iv e Azione non partecipano al voto: «È un boomerang», dice Enrico Borghi, «un assist a Meloni, è in capo alla premier la responsabilità politica e giuridica sulla permanenza del ministro del Turismo, a Meloni vogliamo chiedere quale sarà la soglia entro la quale intenderà intervenire».

Il ventaglio di La Russa

Appunto, quel limite ora è il problema della premier. Ma è davvero un rafforzamento della premier e della sua maggioranza? Certo, Santanchè può raccontarsi «rifiduciata». Ma poi ci sono le parole svogliate di chi sa che salvando la ministra e perde la faccia, che prima o poi dovrà ricacciarsi in bocca quelle parole, che il voto per Santanchè rischia di diventare un marchio, come quello sulla «nipote di Mubarak».

A presiedere l’aula c’è Ignazio La Russa, amico e protettore politico della ministra, se ne frega delle questioni di opportunità: sua moglie ha comprato e venduto una villa in meno di un’ora in società con il fidanzato di Santanchè, un milione di plusvalenza.

Un’ora dopo, alla cerimonia del Ventaglio, arriva blindato dai suoi e dai commessi. Niente rinfreschi, niente rischi di parole in libertà, ne ha già dette abbastanza anche lui. I cronisti parlamentari gli chiedono se ripeterebbe la difesa del figlio accusato di stupro.

Disse: «Lascia molti interrogativi una denuncia presentata dopo quaranta giorni». Stavolta risponde: «Il mio riferimento non era alla ragazza, ma alla scelta del difensore. Capisco forse di non essere stato chiaro. Non rifarei la stessa dichiarazione». Ma chiude il discorso subito, c’è un provvidenziale presidente del Vietnam che lo aspetta.

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