In mattinata il deputato Arturo Scotto, capogruppo Pd in commissione lavoro a Montecitorio, esulta: «Li abbiamo bloccati». L’espressione è un po’ esagerata ma è sottinteso l’avverbio «temporaneamente». Comunque è un fatto che sul salario minimo le opposizioni sono unite – tutte tranne Italia viva – e hanno deciso di vendere cara la pelle, almeno prima di soccombere ai numeri della maggioranza.

Intanto martedì mattina e poi martedì sera hanno fatto ostruzionismo in commissione, per tenere alta la discussione su un tema che fa male a Giorgia Meloni, e rimandare il momento in cui le destre porteranno a casa l’emendamento soppressivo della legge che fissa a 9 euro il limite minimo dello stipendio orario per tutti. «Sotto questa soglia è sfruttamento», dice ancora Scotto.

In realtà il Pd non definisce «ostruzionismo» quello a cui si è arreso martedì il presidente di commissione Walter Rizzetto (Fdi), riconvocandola a sera, al termine dei lavori dell’aula. Lo spiega Maria Cecilia Guerra (Pd): «Interveniamo nel merito. Abbiamo lavorato su un testo base su cui il centrodestra non ha avanzato alcuna proposta. E ora vogliono cancellare il testo base con un emendamento. Vogliamo che venga evitata una bocciatura liquidatoria. La maggioranza ha paura di questo argomento».

Vero: una parte dell’elettorato di destra è favorevole a questa misura, che aiuterebbe tre milioni e mezzo di lavoratori. Ma la maggioranza, per ragioni tutte ideologiche, non può accettarla. E quindi deve levarsi il dente prima possibile. Non ha neanche concesso l’ascolto in streaming chiesto da Scotto. In ogni caso il 28 luglio il provvedimento andrà in aula, e lì sarà seppellito sotto un voto tombale (questo è il destino, almeno sulla carta).

Come in Urss

Martedì mattina Rizzetto ha provato ad argomentare il no pregiudiziale sostenendo che mancano le coperture. Ma no, replica Scotto: «Il testo prevede che sia la legge di bilancio a individuare le coperture». Anche Antonio Tajani, neosegretario di Forza Italia, dà una mano: il salario minimo non serve, «non siamo in Unione sovietica». «Un’imbecillità», replica Carlo Calenda, «sorprende che un ministro degli Esteri non conosca fatti fondamentali tipo che il salario minimo c’è in tutti i Paesi del G7, europei e occidentali».

La commissione riprende i lavori in serata. Viene annunciata la presenza dei leader dell’opposizione: in serata ci sono Elly Schlein e il rossoverde Angelo Bonelli, stamattina, alla nuova convocazione, toccherà a Giuseppe Conte (M5s ) e Nicola Fratoianni (Avs).

Fra gli emendamenti alla pdl ci sarebbero anche quelli depositati da Aboubakar Soumahoro, ex sindacalista inciampato nei guai giudiziari della moglie; e da Italia viva, uno, firmato da Luigi Marattin, che cancella la soglia dei 9 euro. Ma l’emendamento soppressivo delle destre, una volta votato, farà cadere tutti gli altri.

Caos Gpa nel Pd

Nella sconfitta a cui è destinata la pdl, c’è però la novità dell’unità delle opposizioni. Ma il Pd non si gode neanche un momento di soddisfazione. Perché nel frattempo arriva al pettine il nodo della legge Varchi (dalla prima firmataria Carolina, Fdi) che trasforma la gravidanza per altri in un reato universale. Uno svarione giuridico, le opposizioni sono contrarie (sempre tranne Italia viva, che lascia libertà di voto). Tutto bene?

Per niente. Nel Pd scoppia il caos. Inizia lunedì notte. Il casus belli è un emendamento di +Europa, a firma di Riccardo Magi, che arriverà direttamente in aula e chiederà di legalizzare la gpa «solidale». I parlamentari Pd in maggioranza sono contrari alla Gpa, anche nella versione solidale; la segretaria invece è favorevole, ma a livello personale ed ha giurato che mai proporrà di cambiare linea, benché mai discussa proprio per evitare spaccature.

Ma il momento del confronto arriva: nella serata di lunedì Schlein convoca i parlamentari via zoom, insieme ai rappresentante dei diversi appelli, tutti contro la Gpa ma con diversi accenti: i dialoganti e i pasdaràn del no.

Fra i primi Laura Onofri e Maura Cossutta, fra i secondi Silvia Costa e Aurelio Mancuso. Schlein apre i lavori ma poi si disconnette. La riunione si trascina oltre la mezzanotte e mezza. Ci sono posizioni lontanissime e alla fine l’orientamento è astenersi sull’emendamento. Ma la notte porta consiglio. La mattina dopo, cioè martedì, il capogruppo al senato Francesco Boccia avverte la segretaria che sull’astensione i parlamentari si spaccheranno: molti voteranno no.

Nel frattempo fra i deputati si riapre il dibattito: in aula più tardi si voteranno le pregiudiziali di costituzionalità. Vista l’incertezza, la presidente Chiara Braga cambia decisione: sull’emendamento Magi il Pd non parteciperà al voto. Levando anche la segretaria, ed altri vicini a lei, dall’imbarazzo di astenersi su un emendamento a cui sarebbe favorevole.

Non è finita: nel frattempo anche i senatori sono riuniti a palazzo Madama. Alcuni lamentano che la linea del Pd si faccia nell’altro ramo: «Su una decisione del genere è utile il coinvolgimento di entrambi i gruppi sin da subito, onde evitare poi, quando il provvedimento arriverà in senato, voti e posizioni difformi. No?», spiega Valeria Valente.

D’accordo con lei Beatrice Lorenzin. Per ora il Pd naufraga in un bicchier d’acqua: perché comunque l’emendamento Magi è destinato a essere bocciato. Ma la segretaria non riesce a evitare che il passaggio si trasformi in una spaccatura interna. In serata a Montecitorio vengono votate e bocciate le pregiudiziali di costituzionalità al provvedimento. Che tornerà in aula martedì prossimo: e in una settimana c’è tutto il tempo perché il Pd si infili in qualche altro pasticcio.

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