Il sistema della tortura è sempre all’opera: un ispettore e quattro agenti di polizia indagati per le torture commesse nella questura di Verona. Intorno a loro, tanti sapevano e tacevano. I dettagli che emergono dall’ordinanza della giudice Livia Magri sono aberranti: dietro la formula, giuridicamente corretta, che chiama in causa comportamenti “gravemente lesivi della dignità delle persone”, emergono azioni criminali abiette, compiute nei confronti di persone inermi, per lo più straniere e in condizioni di grave vulnerabilità. Questi resoconti ci riportano indietro di 22 anni, alla caserma di Bolzaneto stipata di manifestanti arbitrariamente arrestati a Genova durante i giorni del G8: il sadismo contro persone inermi; l’umiliazione perversa che gioca sulla gestione dei bisogni corporali altrui, l’inflizione di ulteriore sofferenza a chi è stato già percosso, il vanto di quanto e come si sia picchiato e la competizione su chi abbia colpito meglio e di più.

Segnali preoccupanti

C’è un elemento comune a una serie di recenti azioni da parte delle forze di polizia: il pestaggio di una trans a Milano, quello di un cittadino tunisino a Livorno e ora le torture di Verona.

Tutte persone di origine straniera. Come se sul territorio fosse arrivato, grazie a narrazioni stigmatizzanti e criminalizzanti, il messaggio che contro di loro si può fare tutto. A ciò aggiungiamo un altro messaggio che arriva, in queste settimane, dal parlamento e dal governo, dove Fratelli d’Italia spinge per una revisione delle norme in materia di tortura con l’obiettivo, neanche mascherato, di abolirle.

Quando nei palazzi del potere manca una forte cultura dei diritti umani, quando ci si mostra cedevoli, il sistema delle violazioni dei diritti umani – in questo caso, il sistema della tortura – si rafforza. Si basa sull’impunità e cerca chi possa garantirla.

Ricordo che, nei mesi successivi alle stragi delle Torri gemelle del 2001, anche in Italia c’era chi sosteneva la necessità di norme sulla tortura: non per vietarla, come già da 12 anni chiedevano le organizzazioni per i diritti umani; ma per legittimarla, dati i tempi straordinari e l’esigenza di sicurezza contro il terrorismo globale, magari stabilendo limiti ben precisi perché non si andasse “oltre”. Non è chiaro, per inciso, cosa ci sia “oltre” la tortura.

La tortura non è utile

Verona, come Santa Maria Capua Vetere e un’altra decina di procedimenti giudiziari – alcuni già conclusi con condanne, altri in corso – spazza via ancora una volta la narrazione della “tortura utile” e la definisce per ciò che è, nel modo più crudelmente esatto possibile: un’esibizione di potere su coloro che ne sono privi. Un'espressione di odio abbigliato da una divisa. Un’ostentazione di violenza annichilente e sopraffattrice. Un attacco all’umanità delle persone sotto la propria custodia.

Contro questo ritorno a Bolzaneto, che trasforma la relazione tra autorità e cittadino in relazione tra aguzzino e nemico, è necessario ripristinare un concetto desueto: la formazione. Non solo al rispetto degli standard internazionali sull’uso della forza o all’osservanza del Codice etico delle polizie europee, ma anche e soprattutto al rispetto dell’umanità che si ha di fronte. Da questo punto di vista, il ruolo dell’Oscad (l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori), col quale da tempo Amnesty International Italia ha avviato una collaborazione, potrebbe e dovrebbe essere centrale. Così come è centrale il ruolo del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà, che nel 2018 ha avviato una collaborazione, stipulando un apposito protocollo, con l’Arma dei Carabinieri, mentre quella con la Polizia di stato è ancora in fase di partenza.

L’educazione del personale di polizia, la previsione e l’attuazione di programmi formativi ad hoc, finalizzati alla prevenzione di maltrattamenti e tortura, sono del resto oggetto di un obbligo preciso imposto dall’articolo 10 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, di cui l’Italia è parte; programmi che nel 2017, nell’ultima occasione in cui il nostro paese ha dovuto sottoporsi al monitoraggio del Comitato Onu contro la tortura, sono parsi inadeguati tanto da giustificare una raccomandazione a svilupparli ulteriormente e soprattutto a valutarne l’impatto.

Cosa insegna Verona

Concludendo, da Verona arrivano in questi giorni un ammonimento e una conferma. Il primo: il reato di tortura deve restare in vigore come unico argine per punire chi si macchia di uno dei più gravi crimini internazionali, ma anche per tutelare la maggior parte degli operatori delle forze di polizia che il loro lavoro lo fanno benissimo. La seconda: se da tempo sappiamo che non è una semplice questione di “mele marce”, il fatto che le forze di polizia abbiano dato un grande contributo all’indagine in corso ci dice che non c’è, almeno non ancora, un “sistema marcio”.

Tuttavia, sappiamo bene che il sistema può diventare marcio se le mele marce rimangono nello stesso cesto delle mele sane; se funzionari di polizia, in casi come quello di Verona così come in casi precedenti, si sentono attaccati e pongono il problema di come difendersi piuttosto che pensare a come porre fine a un fenomeno criminale che riguarda il corpo di appartenenza.

C’è un sistema, questo sì. Chi tortura non è mai solo: c’è chi si gira dall’altra parte, chi incoraggia, chi giustifica, chi condona. Ma quel sistema può essere incrinato e sconfitto, insieme alla sua architettura dell’impunità. A condizione che il reato di tortura non sia cancellato e che da palazzo Chigi, dai ministeri della Giustizia e dell’Interno così come dal parlamento arrivi un messaggio forte, chiaro e inequivocabile: la tortura non sarà tollerata. Mai.

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