Sarebbe utile se le polemiche che stanno accompagnando la possibile candidatura di Marco Tarquinio nelle liste del Pd per il prossimo parlamento europeo divenissero l’occasione per chiarire alcune questioni. La prima riguarda il giudizio che non l’Europa, dimensione complessa e contraddittoria, ma la sinistra socialista di cui il Pd è parte, danno di Vladimir Putin e della sua strategia espansionista.

Non mi riferisco alla sentenza sulla guerra scatenata contro l’Ucraina dal 24 febbraio di due anni fa perché la condanna di quell’invasione militare con una violazione del diritto internazionale e della libertà di una nazione sovrana è stata dal primo istante, e tale rimane, un dato indiscusso. No, parlo della valutazione strategica sulle reali volontà di quel regime autocratico. Nello specifico, una tesi sostenuta da più parti e col supporto di autorevolezze anche in Italia teorizza che qualunque cedimento alla violenza russa sul suolo ucraino non potrebbe essere che premessa di successive e più devastanti incursioni delle truppe di Mosca nel cuore dell’Europa.

Putin e il 1938

Per capirci è la tesi che sostiene, «oggi Kiev, domani Transnistria, Finlandia, Moldavia, Polonia, poi magari la Senna e chissà». Corollario di questa convinzione è che ogni seria diplomazia col dittatore russo equivalga a una capitolazione destinata a macchiare la coscienza chi se ne facesse paladino. Gli interpreti dell’argomento hanno spesso fatto ricorso al precedente di Monaco 1938, l’accordo che sancì la colpevolezza diplomatica di Francia e Gran Bretagna nell’avere aperto la via alla sciagura nazista che il continente ha trascinato nel sangue.

Anni fa Avishai Margalit si soffermò sull’episodio in un saggio dal titolo emblematico, Sporchi compromessi. La sua tesi distingueva tra il merito di quell’intesa e l’interlocutore di parte tedesca che lo aveva firmato. Tradotto, ciò che rendeva l’accordo sui Sudeti un contratto “sordido” nel senso di immorale era l’averlo sottoscritto con Hitler quando già doveva apparire chiara la natura di quest’ultimo come incompatibile con valori e principi della civiltà democratica e liberale.

Quel patto era certamente un errore catastrofico, ma era l’interlocutore a condannare la scelta come un cedimento morale imperdonabile. E siamo al punto. Insomma, allo snodo critico del passaggio dinanzi a noi ed è un dilemma che mi attraversa. Perché delle due l’una, e mi si perdonerà la sintesi estrema. O noi – noi europei intendo, e la sinistra – riteniamo Putin come l’equivalente del male peggiore, vale a dire un dittatore disposto a condurre la sua crociata anti democratica e anti occidentale sino a conseguenze devastanti (oggi Kiev, domani la Senna). Oppure, confermando la condanna più ferma delle colpe cumulate dal regime russo in Ucraina, e prima in Cecenia o Siria, respingiamo l’impossibilità di ogni spiraglio di trattativa. A quel punto tentando davvero di riaprire il capitolo su come arrestare la strage tuttora in atto.

Con una conseguenza tra le altre, però fondamentale. Che nel primo caso, cioè se riteniamo Putin l’incarnazione di un incubo, avrebbe ragione Macron: egli va fermato con ogni mezzo avendo lo scopo finale di eliminarlo dalla scena della storia. Vuol dire non lasciare ai soli soldati ucraini il compito di combattere e resistere anche per noi, ma bisogna da subito attrezzare forze armate e ogni mezzo o strumento militare allo scopo di non assistere all’avvento di un nuovo Hitler. Vuol dire la guerra! Significa armarsi e affrontare un conflitto per la salvezza delle democrazie e dell’Europa aggredita.

Un’altra via

Può essere questa una posizione ragionevole sotto il profilo storico, politico, umanitario? Continuo a credere che sarebbe una sciagura da evitare e che si debba operare per favorire con ogni energia e intelligenza una soluzione giusta. Se, dunque, quella tesi estrema la si respinge, allora bisogna aprire un diverso dossier, un’altra pratica di condotta per una crisi, una guerra appunto, che ha già causato oltre mezzo milione di vittime e la distruzione di un intero paese.

Vuol dire proporsi l’obiettivo di una trattativa con la ricerca di quel compromesso che solo potrebbe tacitare le armi e favorire una sospensione del conflitto sul campo, magari scortando la svolta con la volontà di accelerare quell’esercito comune europeo indicato da Romano Prodi, laddove fosse esistito, come primo antidoto alla tragedia ucraina.

Da mesi la maggior parte dei vertici dell’Occidente, a partire da un’Europa divisa e inadeguata, all’interrogativo sulla reale natura del dispotismo russo non offre una risposta. Neppure vi è chiarezza su quando questa tragedia si potrà ritenere conclusa. Se col ritorno ai confini di prima del 24 settembre 2022 o alla vigilia del 2014, anno di annessione russa della Crimea. La sola replica che torna frequente nei talk televisivi è che a non volere alcuna trattativa è Putin stesso e, dunque, con chi mai ci si dovrebbe sedere al tavolo?

Obiezione apparentemente oggettiva, salvo che ci si è arresi a quel diniego senza troppa volontà di imboccare un altro sentiero della storia. L’alternativa è la vittoria sul campo, la sconfitta del “nemico” costi quel che costi, come teorizzato a suo tempo dal falco britannico, Boris Johnson, convinto (sic) della necessità di una supremazia militare contro una potenza fornita di seimila testate nucleari.

La ricchezza del Pd

Torno al principio di questa riflessione. Leggo critiche alla candidatura di Marco Tarquinio perché sarebbe antitetico alla linea di sostegno alla resistenza ucraina sostenuta dal Pd in tutti i contesti politici e istituzionali. Parliamo di una personalità del mondo cattolico assai prossimo alle posizioni del Papa. Rinchiudere il portato di quella visione alla condivisione del sostegno militare giustamente garantito all’Ucraina nei due anni alle spalle temo faccia torto a una cultura più complessa e radicata in una fede e tradizione di pensiero che a mio avviso può e deve trovare nella ricchezza del Pd piena ospitalità.

A meno di non temere l’espressione di un pluralismo vero e non ammantato di finzione. Del resto la Dc ha tratto beneficio dal messaggio di Giorgio La Pira come i comunisti dalla presenza nelle loro fila di profili tutt’altro che riferibili alla propria tradizione.

Per l’insieme di queste ragioni non condivido le polemiche sorte in queste settimane. Se una forza della sinistra europea fondata diciassette anni fa con l’ambizione – così si disse – di rappresentare il partito per il nuovo secolo nutre dubbi e qualche turbamento nel candidare un intellettuale del pacifismo cattolico, il dubbio di un equivoco alla radice sorge naturale. Di fronte a un mondo in fiamme e a una terza guerra mondiale a pezzi credo sarebbe saggio quel dubbio accantonarlo al più presto. E non per il quieto vivere interno al Pd, ma per il bene della sinistra.

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