Il leader di Italia viva Matteo Renzi aveva promesso che sui suoi rapporti con l’Arabia Saudita avrebbe dato spiegazioni una volta chiusa la crisi di governo. La vicenda è piuttosto seria e forse, proprio per questo, andrebbe tenuta distinta da ogni calcolo contingente, sganciata dai secondi fini della politica italiana.

La questione saudita è su un altro piano e, da questo punto di vista, Renzi in fondo ha ragione: è proprio adesso che dobbiamo parlarne. Proprio adesso che la crisi è alle spalle. Nel modo più oggettivo possibile.

A quel che sappiamo, il nostro ex presidente del Consiglio riceve (da un paio d’anni) cospicui pagamenti dal regime saudita, come compensi per conferenze o per la partecipazione al board di una fondazione del regime; contemporaneamente, in diverse occasioni pubbliche l’ex premier italiano si è prodigato in lodi generose per quel regime.

Tutto legale, naturalmente. Inopportuno, certo, che lo faccia un senatore in carica, scelto e pagato dai cittadini per sedere in parlamento. In potenziale conflitto di interessi. Ma anche questo in fondo non è il tema centrale. Il punto vero è che l’Arabia Saudita è uno dei regimi più oppressivi e feroci che ci siano al mondo. Quel regime è nella lista nera di tutte le organizzazioni umanitarie. È annoverato fra i dieci paesi in assoluto con le peggiori violazioni di diritti umani, assieme all’Eritrea, alla Corea del nord, al Turkmenistan (e a pochi altri stati che sono in quelle condizioni perché martoriati dalla guerra civile).

Tiberio Barchielli

Secondo la Freedom House, un think tank americano di orientamento liberale, in un indice di libertà che va da 0 a 100 l’Arabia Saudita si ferma a 7; la Russia di Putin, per dire, è a 20; l’Iran raggiunge 17; l’Egitto, 21. L’Italia è a 89.

Conosciamo bene il caso di Giulio Regeni, il dramma di Patrick Zaki. Ebbene, in Arabia Saudita, secondo i report di Amnesty International, ci sono migliaia di persone ingiustamente detenute, torturate, giustiziate.

Il caso più noto riguarda l’editorialista del Washington Post Jamal Khashoggi, che nell’ottobre 2018 si era recato nel consolato saudita a Istanbul per chiedere i documenti per sposarsi e lì fatto letteralmente a pezzi su mandato (a giudizio dell’Onu) del principe saudita Mohammed bin Salman (proprio quello che Renzi intervista ed elogia parlando di «nuovo rinascimento»).

Le colpe del regime

L’Arabia Saudita viola i diritti politici e civili fondamentali di tutti i suoi cittadini (sudditi, letteralmente), viola ancora di più i diritti delle donne, o delle minoranze, viola i diritti degli immigrati che spesso lavorano lì in condizioni semi schiavistiche (il famoso costo del lavoro saudita che Renzi invidia). È il principale fomentatore di una guerra in Yemen che sta causando centinaia di migliaia di morti. Per ripulirsi dall’onta di tutto ciò, il regime saudita ha messo in campo un’ampia e generosa attività di lobbying, pagando autorevoli personalità affinché ne parlino bene. Renzi, ex presidente del Consiglio di una grande democrazia occidentale, ed ex sindaco di una città di fama mondiale come Firenze, si presta perfettamente al caso. Grazie a queste attestazioni di stima, quel regime spera di continuare indisturbato a perpetrare indisturbato i suoi crimini, in spregio alle denunce delle Nazioni unite.

Una parte della mia famiglia vive in quella regione del mondo, a Dubai ho dedicato un libro. Si tratta di un capitalismo neo-feudale, come l’ha ribattezzato Michele Salvati.

Un capitalismo rampante, sfavillante, tecnologicamente avanzato e parecchio ambizioso, ma dove i diritti dell’uomo sono sconosciuti. Di questo modello Dubai è il caso più eclatante e l’Arabia Saudita, storico alleato degli Emirati, il suo recente emulo: più feroce nella repressione dei diritti, più grande e potente e quindi ancora più preoccupante. Il tema è enorme, per i destini del mondo.

Perché il capitalismo neo-feudale è una variante del capitalismo autoritario descritto da Branko Milanovic, con riferimento soprattutto alla Cina (Capitalism alone, 2019): il rischio è quello di un capitalismo che si separi definitivamente dal liberalismo, ovvero dalla democrazia liberale, cioè dal cordone ombelicale, dall’alveo in cui è nato. Il rischio, cioè, è quello di un progresso economico e tecnologico indifferente, se non ostile, ai diritti dell’uomo. E usato quindi non per liberare le nostre vite, ma per opprimerle ancora di più.

Dall’epoca di Stalin e di Hitler, questo rischio non è mai stato così forte, nel mondo, come oggi. Questo è lo scenario in cui un politico italiano a capo di un piccolo partito personale, ma con un passato di una certa importanza alle spalle, si muove. Ed è particolarmente triste (ma rivelatore) che dal suo partito non si sia levata una sola, una sola anche flebile voce, per prenderne le distanze.

Rimane una domanda, per la politica italiana. Cosa c’entrano a questo punto Renzi e Italia viva con i liberal-democratici? Cosa c’entra Renzi ad esempio con una personalità come Emma Bonino? E cosa c’entrano con le battaglie e i valori del Partito democratico? Non c’entrano più nulla. Anzi, ne sono agli antipodi.

Così come sono agli antipodi, nei fatti, delle organizzazioni umanitarie e delle milioni di persone che nel mondo si battono, spesso pagando sulla propria pelle, per i diritti dell’uomo.

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