Limitare l’export di cibo ai paesi ostili: l’ultima minaccia di Vladimir Putin ha alzato il livello di scontro con l’occidente. «Non volete il mio carbone e il mio petrolio? E io vi tolgo grano e mais» è stato il messaggio del leader russo.

Così dall’energia che serve a far funzionare le macchine dell’uomo, si passa all’energia che fa funzionare l’uomo stesso. Speriamo che siano solo parole. Ma intanto l’avvertimento che è arrivato dal Cremlino è un’ulteriore spinta al pendolo che sta portando il mondo a de-globalizzare produzione e scambi commerciali, o almeno a provarci, suddividendo il pianeta in grandi aree autosufficienti.

Prima il confronto tra gli Stati Uniti di Donald Trump e la Cina, poi la pandemia di Covid-19 e ora la guerra in Ucraina, stanno minando l’interdipendenza economica e le specializzazioni geografiche.

Riportare a casa le produzioni di telefoni cellulari, di pannelli solari, di semiconduttori, di batterie per auto, di farmaci e mascherine è l’obiettivo che si sono posti Usa ed Europa per dipendere di meno dall’Asia e accorciare le catene logistiche. Ora addirittura si parla di cibo.

«L’agricoltura ha davanti a sé tre sfide enormi: la pandemia, i cambiamenti climatici e il conflitto che si è aperto fra Russia e Ucraina» ha dichiarato ai primi di marzo nel corso di un convegno di Fieragricola Maurizio Martina, vicedirettore aggiunto della Fao (Food and Agriculture Organization dell’Onu) ed ex ministro delle Politiche agricole.

«Per l’Europa sarebbe assolutamente necessario impostare un piano di autonomia strategica, perché Russia e Ucraina sono player fondamentali dei mercati agricoli globali: insieme rappresentano il 30 per cento del commercio di grano, il 32 per cento dell’orzo, il 50 per cento del volume totale dei semi oleosi, il 18 per cento di quelli del mais».

Ma il ruolo di granai mondiali di Russia e l’Ucraina viene da lontano e rispecchia la tendenza di intere aree geografiche a specializzarsi in alcuni prodotti agricoli. Oggi un pugno di nazioni concentra grandi quote di export di singoli prodotti.

Cinque paesi gestiscono più di due terzi delle esportazioni globali di grano: Russia, Stati Uniti, Canada, Francia e Ucraina. Il Brasile rappresenta il 40 per cento delle esportazioni globali di zucchero e il 50 per cento di quelle di soia. Gli Usa controllano il 26 per cento dell’export di mais.

Guerra e crisi, la storia di ripete

Questo fenomeno di concentrazione e specializzazione risale alla seconda metà del XIX secolo, quando l’abbassamento dei costi di trasporto marittimo facilitarono i commerci internazionali di derrate alimentari.

Iniziarono a sorgere mercati globali per una serie di prodotti di base e furono gettate le basi per una divisione internazionale del lavoro. Alcuni paesi si specializzarono nell’esportazione agricola e altri in quelle manifatturiere, importando la maggior parte dei loro alimenti.

L’Europa rappresentava il numero uno dei mercati alimentari internazionali: da sola assorbiva il 72 per cento delle importazioni di cibo a livello mondiale. Questo processo di globalizzazione ha attraversato grandi crisi, in particolare con le due guerre mondiali: i blocchi navali mostrarono quanto era rischioso dipendere dal commercio a lunga distanza.

Le produzioni alimentari tornarono per quanto possibile in patria. Il sistema cercò poi di assestarsi in qualche modo nel secondo dopoguerra con gli accordi Gatt sulle tariffe doganali e sui commerci.

Negli anni gli Stati Uniti hanno progressivamente perso il dominio che detenevano sugli scambi e sui prezzi delle materie prime agricole. Tra i nuovi concorrenti, il più pericoloso era l’Unione europea, in grado di competere con gli Usa grazie alla sua potenza finanziaria.

Anche alcuni paesi in via di sviluppo in rapida ascesa divennero gradualmente seri competitori degli Usa, come il Brasile per la soia, l’Indonesia e la Malesia per l'olio vegetale, l’India e la Thailandia per il riso.

La globalizzazione riprese slancio per arrivare alla fotografia odierna, dove la dipendenza di alcuni sistemi economici dalle proprie produzioni agricole ne influenza in modo pesante i destini a seconda che i prezzi crollino, con le conseguenze crisi finanziarie, o invece crescano trasferendovi nuove ricchezza.

Non solo. Come sottolinea un documento dell’Accademia dei Lincei di un anno fa, «la superficie dei pascoli argentini si è dimezzata per fare spazio alle derrate da esportazione; per la stessa ragione vengono abbattute parti della foresta amazzonica». Un’altra minaccia per i paesi poveri è quella del land-grabbing, l’accaparramento di terre da coltivare da parte di nazioni o multinazionali asiatiche e occidentali.

Le carenze di grano in nord Africa

Il sistema è fragile e ora la guerra in Ucraina ne sta mostrando ancora una volta i limiti. Gettando lo sguardo sul Mediterraneo, per esempio, crea molta preoccupazione la situazione sulla sponda meridionale. 

«Oggi i paesi del nord Africa, dall’Egitto al Marocco, dichiarano scorte di cereali per poche settimane, visto che si approvvigionavano da Russia e Ucraina» spiega Alessandro Apolito, responsabile tecnico della Coldiretti. «Intanto dall’ottobre 2021 la Cina ha ammassato grano e mais e oggi ha stoccato il 60 per cento dei cereali del mondo. Se domani l’Egitto, maggiore importatore di grano, l’Algeria o la Tunisia non avranno da mangiare, chi potrà fornirgli cereali? Solo la Cina. Questa non è una semplice partita economica, l’autosufficienza alimentare serve in un’ottica di sicurezza europea. Le primavere arabe sono scoppiate quando il prezzo del grano tenero e del frumento era salito troppo».

La dipendenza dai prodotti ucraini fa temere una nuova ondata migratoria da questi paesi verso l’Europa, già alle prese con i profughi provenienti dall’Ucraina.

L’Europa è un esportatore netto di grano e, come sostiene la Commissione, «la disponibilità di cibo non è attualmente in gioco nell’Ue, poiché il continente è ampiamente autosufficiente per molti prodotti. Tuttavia, il nostro settore agricolo è un importatore netto di prodotti specifici, ad esempio le proteine dei mangimi».

L’Unione è particolarmente dipendente dall’Ucraina per la fornitura di mais, colza, frumento, semi di girasole e panelli di girasole, mentre la Russia è un’importante fonte per l’approvvigionamento di frumento, colza, semi di girasole.

Per aumentare la propria autosufficienza, il 23 marzo la Commissione ha varato una serie di misure eccezionali, come la deroga temporanea sui terreni a riposo, che renderebbe coltivabili circa 4 milioni di ettari aggiuntivi negli stati membri, e un maggiore ricorso agli aiuti di stato. Un passo indietro verso l’autarchia o la de-globalizzazione.

Le misure decise dall’esecutivo europeo dovrebbero consentire uno sblocco di 200mila ettari di terreno in Italia per produrre circa 15 milioni di quintali aggiuntivi di mais per i mangimi, di grano duro per la pasta e di grano tenero per il pane.

Secondo la Coldiretti si potrebbe arrivare a un aumento di produzione di 75 milioni di quintali aggiungendo anche parte dei terreni abbandonati negli anni passati. L’Italia oggi importa il 64 per cento del grano per il pane, il 44 per cento di quello necessario per la pasta, ma anche il 16 per cento del latte consumato, il 49 per cento della carne bovina e il 38 per cento di quella di maiale, mentre la produzione nazionale di mais e soia, necessarie per l’alimentazione degli animali, copre rispettivamente solo il 53 per cento e il 27 per cento del fabbisogno italiano, secondo l’analisi del centro studi Divulga.

«L’Italia è costretta a importare materie prime agricole a causa dei bassi compensi riconosciuti agli agricoltori che sono stati obbligati a ridurre di quasi un terzo la produzione nazionale di mais negli ultimi 10 anni, durante i quali è scomparso anche un campo di grano su cinque con la perdita di quasi mezzo milione di ettari coltivati» sottolinea Apolito.

«Molte industrie per miopia hanno preferito continuare ad acquistare per anni in modo speculativo sul mercato mondiale, approfittando dei bassi prezzi degli ultimi decenni. Secondo un’analisi Coldiretti su dati Ismea, per ogni euro speso dai consumatori italiani in prodotti alimentari freschi e trasformati, appena 15 centesimi vanno in media agli agricoltori. E se si considerano i soli prodotti trasformati, la remunerazione nelle campagne scende in media addirittura ad appena 6 centesimi. Ad esempio dal grano al pane il prezzo aumenta oggi di ben 13 volte».

Italia alla ricerca dell’autosufficienza

Il ritorno alla campagna e alle produzioni nazionali presenta in teoria una serie di vantaggi: maggiore sicurezza alimentare di fronte alle crisi internazionali, più lavoro, meno trasporti su lunghe distanze. Ma mostra anche dei rischi.

Prezzi più alti a carico dei consumatori, per esempio. Oppure pericoli per l’ambiente: 17 associazioni ambientaliste, dei consumatori e dei produttori biologici, in una lettera inviata al presidente del Consiglio Mario Draghi avvertono che «arare più terreni, trasformando i prati-pascoli e le aree naturali in seminativi, come si sta proponendo di fare per incrementare superfici agricole destinate a produrre mangimi, usando ancora più pesticidi e fertilizzanti, aumenterebbe pericolosamente il rischio di collassi degli ecosistemi, riducendo la capacità dell’agricoltura di reagire agli shock esterni».

Mentre Slow Food si è dichiarata preoccupata per «le deroghe agli obblighi ecologici per gli stati membri e il permesso di mettere a coltura terreni originariamente destinati alle Ecological Focus Areas, per le quali l’uso di pesticidi tossici non è chiaramente escluso nonostante l’obiettivo di riduzione del 50 per cento prevista dalla strategia Farm to Fork», il piano decennale messo a punto dalla Commissione europea per un sistema alimentare equo, sano ed ecologico. Ma va anche considerato che l’Europa, dovendo sostituire in qualche modo i fertilizzanti provenienti dalla Russia, sarà spinta ad usare sempre di più i fertilizzanti derivati da fonti organiche, con un beneficio per l’ambiente.

In ogni caso l’Europa non sarà mai completamente autosufficiente e dovrà acquistare frutta, soia, caffè, cacao, spezie da paesi extra Ue. In un mondo dove, ricorda l’Accademia dei Lincei, nel 2050 l’agricoltura dovrà produrre una quantità di alimenti superiore del 70 per cento di quella attualmente disponibile. Dove potrà fermarsi il pendolo che oscilla tra globalizzazione e autosufficienza?

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