Diamo ormai per scontato di essere già in campagna elettorale. Potrei limitarmi a sostenere che ciò sia dovuto alla trasformazione radicale dei partiti. Che sono diventate organizzazioni incapaci di fare ciò che dovrebbero – cioè governare – e abili esclusivamente a promettere, come avviene appunto in campagna elettorale.

È la campagna elettorale che è diventata permanente per coprire le mancanze strutturali dei partiti, non – come siamo soliti credere – il contrario. Si potrebbe in fondo sintetizzare così il primo anno di governo Meloni: hanno capito che l’unico modo per sopravvivere è prolungare senza più sosta la campagna elettorale.

Del resto, non v’è dubbio che questo stato di cose serva anche a rafforzare il mutamento antropologico dei politici trasformati in donne e uomini di spettacolo. Le campagne elettorali sono i reality della politica: non c’è nulla di televisivamente più appetibile di questi infiniti talk show in cui i politici vengono rimproverati ormai non per essere cattivi politici ma per essere pessimi comunicatori.

Quello di cui non si parla

Eppure, per ciò che riguarda le prossime elezioni europee, questa considerazione non è il dato più preoccupante, che è invece il fatto che in questa campagna elettorale ci occupiamo di tutto eccetto che di quella che dovrebbe essere la questione fondamentale.

Come ogni volta, anche ora le elezioni europee sembrano diventare un pretesto per parlare di tutt’altro. In questo caso la cosa appare ancora più paradossale. Non soltanto perché il “tutt’altro” si mostra tristemente come un regolamento di conti all’interno dei singoli partiti, con in particolare una parte del Pd che sembra dominato solo dall’intento di far perdere i propri antagonisti interni. Ma soprattutto perché mentre tutti guardano il dito, nessuno sembra più occuparsi della luna. Che nel caso delle elezioni europee è particolarmente luminosa: è la funzione politica dell’Europa.

Passi indietro

Tutto questo silenzio sarebbe anche giustificato, se potessimo almeno riconoscere che in questi anni l’Europa abbia ridimensionato il suo ruolo. Al contrario, a me pare che tale ruolo sia sempre più insostituibile quanto controverso.

Perché le cose sono tornate a remare in senso contrario rispetto alle aspettative dei cittadini e dei popoli europei, dopo una breve parentesi in cui un avversario comune come il Covid, che non faceva differenza di nazioni e classi sociali, ha fatto sperare in una resipiscenza della classe dirigente europea, che sembrava addirittura ammettere i propri errori compiuti nel corso dell’indegna stagione dell’austerity.

Se seguiamo le tre urgenze fondamentali che attraversano questo tempo ci accorgiamo quanto l’Europa stia tornando indietro. In primo luogo, è chiaro a tutti che la guerra in Ucraina – al di là di come la si pensi nello specifico – sia diventata un’occasione di subalternità al paradigma neo-atlantistico, piuttosto che segnare un modo per imporre un’unica voce autonoma e autorevole per ciò che concerne la politica estera.

In secondo luogo, l’unica cosa comune che si intravvede nelle politiche migratorie è la mistificazione che ne fa un pretesto per mettere in campo politiche repressive e nazionalistiche, in cui ogni paese ammette pubblicamente che una politica comune è possibile solo nei limiti e nelle forme ammesse dal principio di tutela degli interessi nazionali.

Infine, le scelte economiche hanno subito una torsione evidente: tutti gli strumenti che hanno segnato tristemente la stagione dell’austerity sono di nuovo tra noi. Si torna a discutere con “rigore” dei vincoli del patto di stabilità, per i quali a quanto pare non si possono trattare deroghe per investimenti nella sanità o nell’istruzione, ma esclusivamente per le spese militari; l’utilizzo dei fondi del Pnrr sembra rispondere non alle urgenze sociali ma a obiettivi strategici fortemente concorrenziali, tornando così a rendere fondato il sospetto che quest’Europa somigli più al braccio istituzionale del neoliberismo che al sogno di Ventotene; la risposta della Bce all’inflazione galoppante sembra essere una ripetizione delle scellerate ricette dell’austerity, che hanno come conseguenza non la redistribuzione della ricchezza ma l’impoverimento dei già impoveriti.

Il ritorno dell’austerity

Le parole citate nel recente articolo di Alessandro Penati sono decisamente preoccupanti: Lagarde rivendica la necessità di una «prudenza fiscale», che si otterrebbe «riducendo i sostegni contro il caro energia e gradualmente abbattendo i livelli elevati del debito pubblico». Ma che altro è questa prudenza fiscale se non l’austerity, l’unico spettro che si aggira ormai per l’Europa? Decisione che adesso non è solo sbagliata ma è anche colpevole, avendo avuto modo di osservarne non più di pochi anni fa le devastanti conseguenze sociali.

Se questo è il quadro, si capisce perché la destra farà di tutto per non affrontare l’argomento dell’Europa alle prossime elezioni. Perché quest’Europa qui, caratterizzata da scelte politiche scellerate, è evidentemente la migliore alleata dei nazionalismi e del neoliberismo. Ma proprio per questo non si capisce perché non lo affronti anche la sinistra, che invece ha tutto l’interesse a porre la questione dell’Europa come la questione fondamentale. Dentro un’Europa che si limita a progettare il proprio futuro nei termini di un mercato comune dove far competere i singoli interessi nazionali e che appalta la propria difesa al neo-atlantismo, la sinistra sarà sempre più marginale. Negli incontri bilaterali si potrà anche mettere in difficoltà Giorgia Meloni, ma non si costruisce alcuna opposizione sociale e politica credibile e durevole. Non è Emmanuel Macron o chi per lui che ci salverà dal contagio della destra, ma l’Europa per ciò che dovrebbe essere e non è.

Alla fine, a me due cose sembrano chiare. La prima è che nessuna delle tre questioni poste prima si possa risolvere se non all’interno di una discussione politica che concerna la natura e il destino dell’Europa. La seconda è che questo destino deve tornare a essere oggetto sia di critica che di speranza. La trappola dell’Europa di Lagarde – che non può che essere criticata da una sinistra credibile – non c’entra nulla con l’utopia dell’Europa di Ventotene – che è l’unica speranza che abbiamo a meno di non cedere alla tentazione nazionalistica. E se la sinistra non torna a rivendicare l’una contro l’altra, continuerà a essere condannata all’irrilevanza, sprecando quest’ennesima occasione. Con rischio che sia anche l’ultima.

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