Stabilire una connessione diretta tra il modo in cui gli Stati Uniti hanno risposto all’11 settembre 2001 e l’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021 non è semplice. Nel frattempo si sono verificati troppi eventi contingenti e gravidi di conseguenze per giustificare la descrizione del primo come causa univoca del secondo o del secondo come effetto prevedibile del primo.

Ad ogni modo, si può dire che l’intervento militare dell’America nel mondo musulmano dopo l’11 settembre, che è durato ormai vent’anni e non si è concluso con l’uscita delle forze di terra dall’Afghanistan, ha contribuito in maniera sostanziale alla distruzione del fragile consenso liberale del paese, aprendo così le porte al culto antiliberale di Trump e alla grave minaccia che ora costituisce per la sopravvivenza della democrazia americana. Quando si dichiarò ufficiosamente la Guerra al terrorismo, diritti come la libertà dall’arresto e dalla detenzione arbitrari, l’abolizione della tortura, la protezione dalla sorveglianza del governo e il diritto a un giusto processo hanno iniziato a essere visti come vulnerabilità strategiche.

I diritti umani universali, un fulcro retorico dell’evangelismo anticomunista durante la Guerra fredda, sono improvvisamente stati rivalutati come un lusso che non ci si poteva permettere nel confronto con i nuovi nemici jihadisti del paese, che avrebbero presto potuto, si pensava, mettere le mani su un ordigno nucleare. Altri principi liberali, compreso quello di varcare le frontiere relativamente senza impedimenti e il diritto dei cittadini di conoscere quello che fa il proprio governo, sono stati associati al progressismo debole sulla difesa e alle “coccole” ai terroristi.

Questo declassamento dei diritti fondamentali nella politica estera americana dopo l’11 settembre è stato giustificato solitamente con l’affermazione del bisogno di sacrificare la libertà per motivi di sicurezza, come se le libertà politiche e civili (tra cui il requisito che il governo offrisse ragioni plausibili per le sue azioni) non contribuissero positivamente alla sicurezza nazionale. La rabbia e la paura scatenate dagli attacchi di al Qaida hanno aperto la cultura politica del paese, sia a livello dell’élite sia del popolo, all’idea che il liberalismo rendesse l’America incapace di difendersi da suoi nemici più spietati.

Con noi o contro di noi

Tuttavia, che cosa lega questo rifiuto radicale delle norme liberali nella guerra globale al terrore con il movimento fanaticamente illiberale del Make America Great Again (Maga) e al tentativo del 6 gennaio di bloccare la certificazione dei risultati delle elezioni presidenziali del 2020? In che modo il tentativo fallito dell’esercito statunitense di istituire una supremazia americana con la forza delle armi nei lontani paesi musulmani si è trasformato nel tentativo dei nativisti americani xenofobi di rovesciare la democrazia multipartitica, minare il riconoscimento pubblico e conquistato a fatica del pluralismo etnico e imporre la supremazia bianca a livello nazionale?

L’analogia non prova la causalità. Però è certo indicativo che la guerra al terrorismo e il movimento Maga condividano una mentalità “con noi o contro di noi”, così come una paura ossessiva di infiltrazioni straniere attraverso confini nazionali poco controllati. Entrambi partono dal presupposto che una nazione cristiana a maggioranza bianca sia sotto assedio e sia minacciata nella sua esistenza da popoli non bianchi e culture non cristiane. Per l’establishment antiterrorista i diritti liberali dovrebbero essere riservati agli americani e in particolar modo negati agli stranieri di fede islamica. Per i populisti americani il diritto di voto dovrebbe essere concesso pienamente soltanto agli americani “veri” (cioè bianchi) e negato invece alle minoranze che tendono a votare i democratici.

La differenza è importante, ma è solo una questione di dove si traccia la linea di separazione e di chi decide quali gruppi dovrebbero essere privati dei diritti fondamentali, compresa la libertà dalla violenza da parte di agenti armati dello stato sulla percepita appartenenza a un gruppo nazionale, etnico o confessionale sfavorito.

Il problema del liberalismo, dal punto di vista di Maga, è che i liberali americani simpatizzano eccessivamente con le minoranze etniche non bianche e gli immigrati e addirittura condannano la tendenza dei poliziotti bianchi di sparare a morte ad adolescenti neri disarmati per infrazioni minori della legge. Il problema del liberalismo dal punto di vista della guerra al terrore è che i liberali vogliono garantire il processo giusto ai musulmani stranieri e anche denunciare l’uccisione indiscriminata di innocenti quando le truppe americane invadono o bombardano i paesi musulmani.

Il peccato principale del liberalismo americano, sia secondo i populisti americani, sia secondo gli architetti dell’era di Bush della politica antiterrorismo dell’America, risiede nella sua presunta sensibilità sproporzionata e selettiva nei confronti delle ingiustizie e degli oltraggi subiti dagli “altri” non bianchi, cittadini e stranieri, mentre minimizza il bisogno degli americani (veri) di difendere i loro interessi vitali per esempio militarizzando i confini esterni del paese e negando il diritto al giusto processo a coloro che sono semplicemente sospettati di aver commesso o pianificato atti malvagi.

Vale la pena anche sottolineare, per inciso, che un numero sproporzionato di forze militari americane che hanno invaso e occupato sia l’Afghanistan che l’Iraq provenivano dagli stati dell’ex Confederazione. In effetti, la guerra al terrore è stata in gran parte condotta da soldati degli stati repubblicani e osteggiata in grande misura dagli attivisti contro la guerra degli stati democratici.

In altre parole, la divisione sezionale dell’era Maga della politica americana in stati rossi, repubblicani, e blu, democratici, era implicita nella divisione dell’era della guerra al terrore, tra i sostenitori nativisti e gli oppositori cosmopoliti delle guerre dell’11 settembre.

Sfiducia e polarizzazione

Questi punti dovrebbero bastare per dimostrare che i paralleli tra la mentalità Maga e quella della guerra al terrore esistono realmente e vale la pena esplorarli.

Un confronto più approfondito rivela tuttavia un risvolto più profondo e consequenziale. Su certe questioni, i seguaci di Trump hanno più cose in comune con i critici della guerra al terrore che con i suoi sostenitori. Penso qui alla denuncia del primo al “deep state”, che include certamente i poteri oscuri di Cia e Fbi.

Paradossalmente, la polarizzazione politica e ideologica dei populisti degli stati repubblicani e dei liberal degli stati democratici, che rende quasi impossibile per i due gruppi cooperare in modo democratico, deriva da una comune sfiducia nell’onestà e nella competenza dei politici che lavorano sulla sicurezza nazionale. Questa sfiducia bipartisan corrosiva è stata alimentata in gran parte da coloro che hanno iniziato e che hanno prolungato la disastrosa risposta militare all’11 settembre, inondando consapevolmente il pubblico di bugie.

Non c’è dubbio che Trump abbia vinto la presidenza nel 2016 in parte perché si è opposto alle “forever wars”, le guerre infinite dell’America. La sua posizione contro la guerra era fondamentalmente xenofoba e antiliberale. Solo superficialmente quindi assomigliava alla politica pacifista dei liberali cosmopoliti. Allo stesso modo, il suo seminare sfiducia nei confronti della CIA e dell’FBI era motivato da un interesse personale e non da un impegno democratico per la trasparenza e la responsabilità di ogni singola agenzia governativa finanziata con fondi pubblici.

È sorprendente, ad ogni modo, che il suo appello ai suoi seguaci illiberali si fondi in parte su un sospetto tipicamente liberale, sia della versione ufficiale della realtà fornita dai funzionari di governo, sia della sfiducia nei confronti delle agenzie di sicurezza nazionale, che operano in gran parte nell’oscurità e sono quindi non democraticamente protette dallo scrutinio pubblico. Senza dubbio, il nichilismo morale e intellettuale del movimento Maga è un’eco altamente distorta dello spirito antagonistico di critica e dubbio del liberalismo. È comunque un’eco.

Ambivalenza

La visione del mondo Maga, quindi, racchiude sia il pensiero dei fautori sia quello degli oppositori della guerra al terrore. Il trumpismo è dunque un prodotto dell’11 settembre, in senso espansivo o addirittura comprensivo. Esprime autenticamente entrambi i lati della divergente reazione americana all’11 settembre. La sua tensione illiberale e xenofoba sui confini induriti è stata senza dubbio rafforzata dallo shock dell’attacco di al Qaida.

E il suo rifiuto di credere nell’onestà e nella competenza dei funzionari pubblici, per quanto perversa ed esagerata nel contesto della pandemia di Covid-19, è stato senza dubbio stimolato in parte dal comportamento mendace del governo americano nel giustificare le guerre catastrofiche in Iraq e Afghanistan.

La distruzione delle norme fondamentali del governo responsabile da parte dell’amministrazione Bush-Cheney a seguito dell’attacco di al Qaida, criticata con scarso effetto dai liberali, ha reso molto più facile per le forze nativiste e xenofobe persuadere molti americani che l’intera struttura marcia meritava di essere abbattuta. In questo senso si può dire che la strada dall’11 settembre ha portato la democrazia americana al punto in cui si trova oggi, vale a dire nella sua più profonda crisi di legittimità dalla guerra civile.

Stephen Holmes è professore di legge e teoria politica presso la New York University. Traduzione di Monica Fava

© Riproduzione riservata