Qualcuno pronto a scommettere il suo capitale politico sull’accoglienza c’è. Non è Angela Merkel né Emmanuel Macron, che in vista delle elezioni virano a destra e pensano a esternalizzare i rifugiati afghani a Turchia, Pakistan e Iran.

L’alternativa viene da un altro continente, il Canada, e ha il nome di Justin Trudeau. Accogliere non nuoce al consenso, o meglio, se così fosse, il rischio va corso: è la lezione che il premier liberale sta dando ai leader europei. Mentre i canadesi si preparano ad andare alle urne a settembre, due anni prima della scadenza naturale, con elezioni anticipate, Trudeau conferma la linea delle porte aperte già inaugurata con i rifugiati siriani. Promette subito accoglienza a ventimila afghani.

Scelte e proporzioni

«Si percepisce un senso di sollievo e di speranza», ha detto già nei primi giorni di agosto Marco Mendicino, ministro dell’Immigrazione canadese, mentre accoglieva in aeroporto gli afghani che hanno lavorato assieme al suo governo. Quei primi arrivi erano stati programmati da luglio, e più di recente Ottawa ha reso chiaro il piano complessivo: recepire 20mila afghani in cerca di protezione. C’è chi ha fatto i conti: se gli Stati Uniti volessero seguire l’esempio canadese, dovrebbero consentire l’ingresso ad almeno 180mila afghani in fuga dai Talebani. Certo, si potrebbero fare valutazioni sul coinvolgimento nel conflitto e sugli obblighi morali: il Canada ha profuso il suo più grande sforzo militare recente in Afghanistan; ha rifiutato nel 2003 di partecipare con gli Usa all’intervento in Iraq, in assenza di un mandato dell’Onu, ma ha intensificato la presenza afghana perché Washington potesse liberare risorse da dirottare in Iraq. Dal 2014 comunque Ottawa ha ritirato le sue truppe, e in ogni caso nessuno più di Washington è direttamente coinvolto. Ma anche calcolando solo la popolazione, il Canada è circa un nono degli Stati Uniti. Ecco perché, se volesse stare almeno al passo con Trudeau, Joe Biden dovrebbe garantire accoglienza a poco meno di duecentomila rifugiati.

La scena del ministro Mendicino che sulla pista di atterraggio di Toronto dà il benvenuto agli afghani rievoca altre immagini. Alla fine del 2015, il premier si fece trovare in aeroporto per salutare il primo gruppo di rifugiati siriani. «Il modo in cui accogliamo queste persone è qualcosa che loro ricorderanno per tutta la vita ma che rimarrà impresso per sempre anche in noi: ha valore per il Canada e per il mondo tutto», disse Trudeau quel giorno. Stava così rilanciando una tradizione di accoglienza del suo paese, che dal 1980 ha accolto oltre un milione di rifugiati, e dava anche il segno del suo orientamento politico, attento al multilateralismo e all’impegno internazionale. Quell’inverno di sei anni fa, lui era appena diventato premier. Durante la campagna elettorale dell’epoca, aveva promesso di accogliere 25mila siriani in fuga dalla guerra. Non solo ha mantenuto l’impegno – a febbraio 2016 in 25mila avevano già ottenuto protezione – ma nel tempo le cifre sono lievitate. Cinque anni dopo, il numero era quasi raddoppiato, con uno sforzo congiunto di governo e sponsor privati.

Immigrazione e consenso

Nel 2015 accogliere fu una promessa elettorale di Trudeau. Oggi, da premier che si avvicina al voto del 20 settembre, non promette neppure: decide. Sono decisioni scontate? La Germania con le elezioni imminenti sta rinnegando la politica delle porte aperte praticata con la crisi siriana da Merkel; «Non bisogna ripetere il 2015» è la frase ribadita tanto da Armin Laschet, candidato a succederle, quanto dall’estrema destra di AfD. Se obbedisse ciecamente ai sondaggi, forse anche Trudeau trarrebbe più profitto elettorale da un atteggiamento meno accogliente. I sondaggi Ipsos canadesi fotografano perplessità sull’immigrazione, aumentate nel 2017, poi ancora nel 2018, fino al 2019 con sei scettici su dieci; tra questi, soprattutto gli ultrasessantenni, ma più che temere l’immigrazione in sé, vogliono che l’ingresso avvenga in modo regolare. A ogni modo le paure possono essere dissolte, e già una volta Trudeau ne ha dato prova: a novembre 2015, sempre stando a una rilevazione Ipsos, il sessanta per cento dei canadesi si diceva in disaccordo con il piano dei liberali di accogliere i 25mila rifugiati siriani. Appena un mese dopo, quando già erano circolate le immagini del premier intento ad abbracciare i bambini in arrivo dalla Siria, Forum Poll rilevò un cambio di orientamento: i favorevoli erano più dei contrari, pur con stretto margine.

La scommessa

La scelta stessa di indire elezioni anticipate è del resto una scommessa di Trudeau, che prova a sfruttare il momentum, il frangente a lui favorevole in termini di consenso, nella speranza di trasformare l’attuale governo, solido ma comunque di minoranza e dipendente quindi dai partiti alleati, in un esecutivo di maggioranza. «Pur di avere benefici elettorali il premier ci costringe a una campagna elettorale mentre entriamo nella quarta ondata», ha provato a dire l’opposizione, conservatori in testa. Ma Trudeau, che ha portato il paese avanti con le vaccinazioni (il 65 per cento ha avuto entrambe le dosi), ribalta l’argomento: «In un momento chiave come questo, non vorreste dire la vostra?». Anche in questo il liberale canadese va contro corrente: se altrove le urne vengono schivate con la motivazione della pandemia, lui invita a votare proprio perché la pandemia sta imponendo scelte chiave.

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