A volte stare insieme serve a capire che bisogna sapersela cavare da soli. Questa è la conclusione tratta oggi dall’Europa, dopo che si è seduta con gli Stati Uniti attorno allo stesso tavolo, quello virtuale del G7 straordinario sull’Afghanistan. «La lezione afghana è: sviluppare la nostra autonomia strategica è più importante che mai», ha concluso Charles Michel.

Dietro le parole amare del presidente del Consiglio europeo si celano gli attriti con la Casa Bianca sui tempi di evacuazione dal paese: per il Regno Unito e per i paesi europei, il termine di fine agosto non basta a completare tutte le operazioni. «Abbiamo espresso agli Usa preoccupazione per questa scadenza, bisogna provare a estenderla. Servono corridoi sicuri anche dopo quella data». Posizione anche italiana: «Mantenere i canali di contatto anche dopo il 31» è l’opzione per Mario Draghi. Ma la Casa Bianca resta ferma sul suo calendario, mentre intanto i Talebani intimano alla popolazione afghana di stare alla larga dall’aeroporto.

La linea rossa di agosto

Il G7 di oggi, convocato per via straordinaria da Boris Johnson, e che ha riunito in una stanza virtuale i leader di sette paesi (Stati Uniti, Regno Unito, Italia, Francia, Germania, Canada e Giappone) ma anche Ue, segretari Nato e Onu, doveva mettersi d’accordo sull’immediato: l’evacuazione completa dall’Afghanistan e la situazione umanitaria nel paese. Per sviscerare appieno la crisi afghana servirà la presenza anche di Mosca e Pechino, e non a caso palazzo Chigi insiste sul G20 in autunno. Ora, andarsene entro fine mese o procrastinare, per continuare le operazioni di evacuazione?, era il più urgente interrogativo sul tavolo oggi. «Nel paese registriamo esecuzioni sommarie di civili, repressione di proteste e dissenso, vincoli che vanno a discapito delle donne»: il j’accuse di Michelle Bachelet, alta commissaria Onu per i diritti umani, è una sponda alle richieste di Londra e dei leader europei. Avrebbero voluto più tempo, oltrepassare la deadline e poter proseguire l’evacuazione dopo. La presenza dei circa 6mila statunitensi a presidio dell’aeroporto internazionale di Kabul è indispensabile anche agli alleati, e ancor di più lo sono, ai fini delle operazioni, tutte le risorse di intelligence, sorveglianza e controllo del traffico aereo di impianto Usa. Ecco perché al meeting dei sette, e già prima, la Casa Bianca è stata circondata da richieste di rinvio. Più di tutti, Downing Street ha spinto, invano. Del resto una delle critiche mosse dai repubblicani a Biden giorni fa è proprio questa: «Se ci sfiliamo così dall’Afghanistan, quale credibilità avremo per i nostri partner internazionali?». Ma la Casa Bianca corre via. Intensifica le operazioni di evacuazione: delle oltre 50mila persone che hanno lasciato l’Afghanistan su voli statunitensi, diecimila sono partite in una dozzina d’ore. Il Regno Unito per portarne via 7mila ha impiegato una settimana. Con i paesi europei ha tentato di guadagnare tempo dagli Usa. «Squeezed», pressato, schiacciato. Così viene definito Joe Biden dai quotidiani del suo paese: sotto pressione sulla data.

La Cia e i Talebani

La Casa Bianca ha seguito con determinazione la scadenza del 31. In mente c’era un’altra data simbolo: l’11 settembre 2021, il ventesimo anniversario dell’attacco alle Torri gemelle, l’innesco della guerra afghana. Una linea da non valicare, mentre intanto a inizio settimana i Talebani lanciavano segnali a mezzo di interviste tv: le truppe straniere devono andarsene entro fine agosto, se superano il limite ci saranno conseguenze. Un crinale così delicato da aver richiesto un incontro al vertice del tutto particolare alla vigilia del G7: lunedì, mentre proseguiva a ritmo sempre più intenso l’evacuazione dall’aeroporto di Kabul, in quella stessa città William Burns incontrava Abdul Ghani Baradar. Burns da marzo è a capo della Cia, ma da molto tempo è l’avamposto diplomatico della Casa Bianca nelle situazioni più estreme. «Arma segreta», così veniva definito già sette anni fa dal giornalista Nicholas Kralev: «L’arma segreta dei segretari di stato Usa per oltre due decenni consecutivi, con tre repubblicani e tre democratici». C’era lui, Burns, anche dietro i canali di dialogo aperti con l’Iran, che portarono poi all’accordo sul nucleare. E c’è lui adesso a incontrare il leader dei Talebani. Abdul Ghani Baradar è anche il cofondatore dell’organizzazione, e nel 2010 ci fu la Cia oltre che il Pakistan dietro il suo arresto. La natura eccezionale dell’incontro tra Cia e Talebani fa intendere anche la straordinarietà di questo frangente. Dopo quel vertice riservato, pochi minuti prima del G7, il portavoce dei Talebani Zabihullah Mujahid ha ribadito la linea rossa di fine agosto e ha rilanciato in conferenza stampa: «Tornatevene a casa»; si riferiva agli afghani ma anche indirettamente alla presenza straniera. «Chiediamo agli americani: smettetela di incoraggiare gli afghani ad andare verso l’aeroporto, di invitarli sugli aerei».

Legittimità, aiuti e rifugiati

Alla popolazione i Talebani mandano a dire: «L’aeroporto è chiuso, agli afghani non è consentito andar lì, è pericoloso, solo agli stranieri è permesso. Tornate a casa. Per noi la guerra è finita». Per il G7, la legittimità di qualsiasi governo futuro «dipende dal suo approccio verso gli obblighi internazionali e dal suo impegno per la stabilità del paese»; Johnson dice che «la prima condizione è garantire passaggi sicuri dopo il 31». Intanto ogni sforzo economico sarà diretto esclusivamente ad aiuti umanitari. La presidente della Commissione europea annuncia che il supporto economico Ue a tale fine sarà quintuplicato, da 50 a 200 milioni dedicati agli afghani «nel paese e fuori, anche per i paesi vicini». Fa intendere che quei soldi serviranno anche a compensare «Pakistan e Asia centrale» se «assicureranno sicurezza agli afghani che lasciano il paese», ed è a questo che l’Europa lavora: «percorsi sicuri» per chi fugge ma anche esternalizzazione dei rifugiati.

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