Sono giorni che le voci si rincorrono senza conferme ma ora sembra di essere alla stretta finale: Israele, Stati Uniti e Hamas sono “vicini” a un accordo per la liberazione di decine di donne e bambini dei 240 complessivi tenuti in ostaggio a Gaza, in cambio di una pausa di cinque giorni nei combattimenti.

Lo ha riportato il Washington Post ma la Casa Bianca ha negato anche se ha confermato che gli sforzi per raggiungere un’intesa tra Israele e Hamas continuano «a tutto campo». L’amministrazione Biden vuole che gli ostaggi vengano liberati al più presto per evitare che la delicata questione (che sta spaccando la società israeliana) sia un argomento della prossima campagna elettorale per il rinnovo della presidenza.

Contrordine

Intanto, al 44esimo giorno di guerra, i bombardamenti israeliani su Gaza non si fermano (secondo fonti palestinesi, almeno 15 palestinesi sono rimasti uccisi nelle ultime ore nel campo profughi di Nuseirat e in una casa bombardata a Khan Younis).

L’esercito ha attaccato ieri sera "molti" obiettivi di Hamas nelle città di Jabalia, Beit Lahia e nel quartiere di Zaytun, a Gaza City: vuole consolidare le sue posizioni nel nord della Striscia, prima di avanzare la sua offensiva verso il sud dell’enclave palestinese. Dopo aver chiesto a circa 1,5 milioni di profughi palestinesi di passare al sud per poter attaccare Hamas nel nord della Striscia ora si cambia strategia.

Cosa è successo? E dove andranno ora quel milione e mezzo di profughi senza casa e assistenza? La novità viene da un ex primo ministro israeliano Ehud Olmert che ha detto a Euronews che il centro di comando sotterraneo di Hamas si trova a Khan Younis, una città nel sud della Striscia di Gaza, non nell’ospedale al Shifa nel nord della Striscia.

Probabilmente lo ha saputo da ambienti di intelligence israeliani. Ma se è davvero così ora Israele dovrà farsi strada in una zona popolata da due milioni di profughi, in un’area che era già tra le più densamente popolate al mondo. Uno scenario da brivido per le probabili vittime civili che andrebbero a sommarsi ai 12mila morti già registrati dal ministero della Sanità di Hamas.

Si tratta di una prospettiva che prevede di trasformare in un campo di battaglia un’area stipata da due milioni di profughi civili. Una assurdità, ma perché si è giunti a questo punto?

Le cause

Gli stati Uniti, l’alleato principale di Israele, sono da ritenersi in gran parte responsabili della situazione odierna perché hanno fatto partire il processo di pace nei primi anni Novanta per poi affossarlo meno di un decennio dopo e per oltre vent’anni non hanno fatto praticamente più nulla di concreto per ravvivarlo.

Ora il presidente Biden esce dal torpore e parla della soluzione a due stati, ma c’erano 120mila coloni nei primi anni Novanta in Cisgiordania, e ora ce ne sono 6-700mila. Gaza nel frattempo è ridotta a una landa desolata, con una ricostruzione che impiegherà decenni.

Ma ciò che preoccupa per una possibile soluzione stabile è il fatto che non ci sia alcun sentore di moderazione nella politica israeliana, polarizzata e spaccata. I potenziali successori del premier Benjamin Netanyahu sono comunque sulla stessa linea sulla questione palestinese.

Paradossalmente, l’ultimo uomo politico a tentare di muovere le acque è stato nel 2005 l’ex premier Ariel Sharon, uomo della destra estrema, che si era ritirato da Gaza e stava per farlo anche dalla Cisgiordania, ma poi è stato colpito da un ictus e tutto quel processo politico si è fermato.

Cambiamenti

Nel panorama politico adesso troviamo molto estremismo sul lato israeliano, personaggi molto radicali come Ben Gvir e Smotrich. Ciò che manca a Israele (e non solo a Israele, ovviamente) sono statisti che abbiamo una visione e il carisma per scelte impopolari. Mancano a Tel Aviv personaggi come Begin, Rabin e persino Sharon.

Oggi la strategia che va per la maggiore è quella di estremisti che faranno salire la popolazione delle colonie a un milione, per poi annettere la Cisgiordania o gran parte di essa. Una prospettiva foriera di nuove tensioni.

Gli houthi

I ribelli yemeniti houthi hanno attaccato nel mar Rosso una nave mercantile legata ad un uomo d’affari israeliano e ne hanno preso il controllo. Lo riportano al Jazeera e il quotidiano saudita al Hadth, in base al quale i ribelli che operano per conto dell’Iran, hanno dirottato la nave da trasporto Galaxy Leader, con a bordo 22 membri dell’equipaggio.

Sembra che a bordo non ci siano israeliani. Ieri mattina gli stessi houthi avevano minacciato di attaccare le navi israeliane in mare.

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