«Non mi sento un eroe, ho fatto semplicemente un’iniezione, altre persone hanno fatto molto di più, soprattutto all’inizio della pandemia quando nessuno sapeva bene cosa fosse. Penso al personale sanitario, ai corrieri e a chi lavora nelle case di cura. Mia mamma lavora in una di queste, in Inghilterra, gli ho chiesto di smettere ma non ha voluto».

Jim ha 41 anni, dal nord dell’Inghilterra si è trasferito ad Abu Dhabi tre anni fa, dove lavora per una compagnia petrolifera. È tra i 15mila residenti negli Emirati Arabi Uniti che hanno deciso di testare il vaccino per il Covid-19 dell’azienda farmaceutica Sinopharm, del China National Biotec Group (Cngb).

«Lavoravo da casa e continuavo a essere pagato, mentre vedevo tantissima gente che si metteva in gioco per aiutare altre persone. Offrirmi volontario è stato l’unico modo che ho trovato per fare la differenza», dice.

La sperimentazione è iniziata a fine luglio e rientra in un programma avviato tra il colosso farmaceutico cinese e l’azienda araba G42. «Mi hanno fatto la prima iniezione ad agosto e la seconda a settembre, da allora mi sottopongo ai tamponi molecolari ogni due settimane e sono risultato sempre negativo», dice Jim.

È convinto di aver preso il vaccino e non il placebo perché è stato a contatto con alcuni colleghi risultati positivi. A oggi non ha alcun sintomo e continua a fare la vita di tutti i giorni. «Ho visto pochissimi occidentali e qualche cinese, la maggior parte è gente proveniente da paesi come Pakistan, India e Bangladesh», afferma riferendosi agli altri volontari che ha incontrato nelle cliniche.

Libertà di movimento

«Penso che alcuni di loro lo hanno fatto per non pagare i tamponi ogni volta che attraversano il confine di Abu Dhabi», spiega. Per andare da un emirato all’altro è obbligatorio sottoporsi al tampone molecolare che inizialmente aveva un costo di 370 dirham (circa 85 euro), prezzo che si è dimezzato con le ultime disposizioni, ma per chi è nel programma di sperimentazione è gratuito.

Dello stesso parere è Mohamed Razlim un ragazzo 32enne di Kannur, in India, che lavora per la Pacific International Lines, tra le prime dieci compagnie di spedizione marittima del mondo. Mohamed ha iniziato la sperimentazione l’8 agosto nonostante i suoi genitori e i suoi amici non fossero d’accordo con la sua scelta.  

«È una responsabilità che qualcuno doveva prendersi, altrimenti il virus non lo sconfiggi. C’è sempre la possibilità che ci sia qualche problema per la mia salute, ma sono pronto a prendermi il rischio», dice con orgoglio. «Mi hanno fatto firmare una sorta di contratto in cui c’erano scritte le regole, le responsabilità e tutto il programma da seguire». Nei giorni seguenti alla somministrazione della dose ha avuto un lieve mal di testa, ma i tamponi sono stati tutti negativi.

Ogni giorno deve misurarsi la temperatura e annotarla su un foglio. Agli inizi lo chiamavano dalla clinica quasi tutti i giorni per sapere le sue condizioni di salute, ora ogni settimana.

Non ci sono dati statistici sulle origini dei volontari, ma secondo il dipartimento della salute di Abu Dhabi i test hanno coinvolto cittadini di 125 nazionalità diverse. Il vaccino della Sinopharm è attualmente in fase tre e il follow up continuerà almeno fino a primavera.

Secondo i manager dell’azienda sta fornendo buoni risultati, tali da far sperare in una produzione di circa 1 miliardo di dosi all’anno. Lo scorso 14 settembre il ministro della salute e della prevenzione, Abdul Rahman bin Mohammad, ha deciso di autorizzare la somministrazione del vaccino in via emergenziale per il personale sanitario. Una misura di difesa per fra fronte alla seconda ondata della pandemia che ha raggiunto i 143 mila casi totali nel Paese.

La geopolitica del vaccino

Tuttavia, la rapidità con la quale vengono bruciate le tappe da parte delle aziende farmaceutiche cinesi - che contano ben quattro vaccini su dieci in fase tre - pone non pochi dubbi sull’efficacia del vaccino.

Negli ultimi mesi, Pechino ha garantito milioni di dosi a paesi vicini come Filippine, Indonesia e Myanmar, tutti all’interno dell’Asean, l’organizzazione politica ed economica dei paesi del sud-est asiatico. In cambio del vaccino, la Cina vorrebbe una decisione a suo favore quando i membri dell’Asean decideranno sul code of conduct in relazione alle dispute territoriali nel Mare Cinese Meridionale.

Milioni di dosi sono state promesse anche a paesi come Cambogia, Laos e Thailandia. Se Indonesia e Filippine hanno piegato la testa al dragone, il Vietnam, da sempre in un rapporto ambiguo con Pechino, ha deciso di affidarsi all’altrettanto criticato Sputnik V, il vaccino russo.  

Prodotto dalla Gamaleya Research Institute, sarà sperimentato nei prossimi mesi anche negli Emirati Arabi Uniti, e alcuni stati come il Messico e il Kazakistan hanno già prenotato le dosi.

I tentacoli cinesi sono giunti fino in Sudamerica, qui la sperimentazione della Sinopharm è partita anche in Argentina e Perù. Invece in Brasile, dove ad oggi si sono verificati oltre 5,6 milioni di casi totali, la questione è più complicata.

Il paese è  diviso tra il presidente, Jair Bolsonaro, che rifiuta di fare da cavia per i cinesi e il governatore di São Paulo, che è disposto ad accettare la sperimentazione della Sinovac. Qualche giorno fa l’Anvisa (Agenzia Nazionale di Vigilanza Sanitaria) ha annunciato la sospensione dei test per un grave incidente avvenuto il 29 ottobre, di cui non sono stati rilasciati i dettagli.

Nei Caraibi, invece, il ministro degli esteri cinese Wang Yi si è garantito una fetta di acquirenti, garantendo prestiti fino a 1 miliardo di dollari per poter comprare le future dosi del vaccino.

È evidente come negli ultimi mesi la Cina stia cercando di tagliare per primo il traguardo di questa lunga maratona, sia per porre fine alle critiche sulla diffusione del virus sia per usare il vaccino come uno strumento di diplomazia politica internazionale, rinforzando le relazioni con i paesi partner.

Egitto, Bahrein, Giordania e Marocco si sono già accodati agli Emirati e hanno deciso di testare il vaccino della Sinopharm, garantendosi milioni di dosi a sperimentazione completata.

Tra i volontari negli Emirati c’è estrema fiducia nelle istituzioni sanitarie arabe. Rohis Sheikh, un ragazzo di 32 anni di origini bengalesi è uno di questi. Lavora in un centro commerciale di Abu Dhabi. È stato costretto ad emigrare per aiutare economicamente la sua famiglia.

È venuto a conoscenza del vaccino grazie a un membro della sicurezza dello shopping center in cui lavora, «ci ha detto che se volevamo partecipare alla selezione dovevamo registrarci su un sito». Dopo la prima iniezione gli hanno dato un voucher di 300 dirham, ne ha ricevuti altri anche le volte successive, per un totale di 1.000 dirham (272 dollari).

«È stata una scelta che ho fatto da solo, non ho detto nulla alla mia famiglia», confida ridendo davanti allo schermo del pc. Su Facebook mostra con orgoglio il certificato che il ministero della salute di Abu Dhabi gli ha rilasciato. È un ringraziamento «per aver servito il paese, la comunità e l’umanità» e un augurio di «successo e prosperità».

Non mancano tuttavia le critiche: sia Jim che Mohamed lamentano la mancanza di comunicazione. «Non abbiamo ricevuto tante informazioni da parte delle istituzioni sanitarie arabe – dice Jim – penso che potrebbero fare di più, ma capisco pure che si trovano a gestire migliaia di persone».

Spera di ritornare in Inghilterra e abbracciare la madre il prima possibile, anche se lei non sa che si è offerto volontario per testare il vaccino. Proprio come gli altri. Glissano sulle domande con la risata di chi conosce il rischio che sta correndo ma che è consapevole di essere nel giusto. 

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