Il presidente della Somalia Mohamed Abdullah Mohamed detto Farmajo (nomignolo ereditato dal padre che produceva formaggi) ha sorpreso tutti facendosi votare dal parlamento somalo un’estensione del mandato di due anni. Le proteste si sono subito levate da ogni parte e anche la comunità internazionale ha minacciato di interrompere i propri aiuti. Alla fine, circondato da ogni parte, Farmajo ha ceduto. Visto che il suo mandato è scaduto formalmente l’8 febbraio così come quello del parlamento, il contenzioso politico dell’attuale Somalia è il fallimento del tentativo di andare alle prime elezioni legislative generali libere dopo quelle del 1969. Il processo si è insabbiato per le polemiche tra presidente e leader regionali, in particolare quelli del Puntland e del Jubaland.

L’idea di Farmajo è sempre stata centralista: tornare allo stato unitario appena possibile. Le regioni vanno nella direzione opposta, seguendo il modello dell’autoproclamata Repubblica del Somaliland. Tra federazione con un centro forte e confederazione molto più flessibile e meno impegnativa, lo scontro è ancora intenso. I sostenitori del presidente puntano il dito contro l’ostruzionismo delle regioni. I suoi avversari lo accusano di essere antidemocratico. A trionfare è solo il caos. Occorre dire che nessuno si aspettava tale decisionismo politico, in un paese dove il presidente non controlla nemmeno tutta la capitale Mogadiscio. Ma Farmajo è sempre stato un tipo deciso e non ha accettato, come tanti suoi predecessori, di farsi esautorare dalle regioni. Così non voleva lasciare senza combattere.

La “giostra clanica”

D’altronde non esiste una vera e propria soluzione alternativa: le regioni sono soddisfatte dell’attuale status quo dove ognuno fa capo a sé stesso e traffica con chi gli pare pur di mantenersi. Non è una sorpresa che Jubaland e Puntland si appoggino su Kenya ed Emirati, interessati ad avere una profondità di controllo strategico nell’area del Corno, resa molto instabile dal conflitto interno etiopico. La scommessa di Farmajo si fondava sull’unità dell’esercito nazionale somalo, formato dagli occidentali, tra cui anche l’Italia. Se l’unità delle forze armate avesse tenuto, il presidente avrebbe avuto forse una possibilità. Ma i militari sono tornati a dividersi secondo le tradizionali linee claniche, pronte a riportare il paese dentro la guerra. Fatti salvo gli attacchi degli shabaab, i combattimenti tra fazioni si sono interrotti dal 2012 con l’inizio della defatigante ultima fase negoziale non ancora conclusa. L’altra carta del presidente era il sommesso ma continuo appoggio turco, che probabilmente gli ha indotto la mossa spregiudicata, ma che non si è rivelato sufficiente. 

Il fallimento del processo elettorale somalo è dovuto a quella che molti osservatori chiamano ormai la “giostra clanica”: dopo mesi di trattative non c’è stato accordo nemmeno sul censimento dei potenziali elettori né sulle garanzie di sicurezza del voto. Farmajo è un fermo sostenitore di elezioni fuori dal solito schema clanico (preferisce i partiti) e con quote rosa del 30 per cento. In verità le forze politiche somale non si discostano poi tanto dal fazionalismo, tanto che il loro numero è lievitato fino a oltre 100. Alla fine era stata accettata una riforma del sistema di voto su base mista, clanico e partitico, votata dal parlamento in settembre scorso.

Il ruolo dell’esercito

La diffidenza delle regioni viene anche dal fatto che l’esercito somalo, adducendo motivi di sicurezza, è stato schierato nelle capitali regionali, dove si teme funga da supervisore del potere centrale.

Il presidente non ha mai fatto mistero di voler in questo modo far pressione sui governi locali ed aumentare il suo potere. C’è inoltre il fatto che il Somaliland è rappresentato al parlamento somalo da deputati eletti fuori dalla regione, la quale si ritiene indipendente e non riconosce la sua delegazione a Mogadiscio. Il colpo di mano del presidente può preludere a un’ulteriore spaccatura della già tanto divisa Somalia senza che ciò riesca a rinsaldare la tesi centralista. Ancora si attende chi riuscirà a riorganizzare davvero lo stato e superare i veti opportunistici posti di volta in volta dalle varie regioni per evitare il ritorno a elezioni a suffragio universale. 

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