I dati che emergono da “No End In Sight” la rappresentazione grafica pubblicata lo scorso 10 giugno dall’Unhcr, parlano di un aumento dei morti tra i migranti che attraversano il Mediterraneo per provare a raggiungere l’Europa. La notizia, già di per sé allarmante, diventa inquietante se si aggiunge che ciò avviene a fronte di una netta diminuzione, dal 2015 a oggi, del numero di individui che attraversano il mare nostrum.

In altre parole, sebbene il numero di rifugiati e migranti che attraversano il Mediterraneo per raggiungere il vecchio continente sia in netto calo, le traversate stanno diventando sempre più fatali. Dopo il picco del 2015, quando più di un milione di rifugiati e migranti raggiunsero il vecchio continente (in gran parte in fuga dalla Siria) via mare, il numero delle persone che affrontano le traversate marine ha registrato una chiara decrescita, anche ben prima delle pandemia. Dal milione del 2015 siamo passati a 373mila attraversamenti individuali nel 2016, 185mila nel 2017, 141.500 nel 2018, 95.800 nel 2020 e 123.300 nel 2021. Sono modelli di vera solidarietà le Ong che mettono in acqua navi che soccorrono e salvano migranti in mare aperto e si battono per l’accoglienza nei porti.

Purtroppo, però, il numero di morti e dispersi resta sempre molto alto: nel 2021 ha raggiunto la cifra di 3.231, più del numero toccato nel 2017 (3.140) quando, però, gli attraversamenti erano stati decisamente maggiori. La rappresentazione grafica dei dati si concentra in particolare sulla rotta che va dall’est e dal Corno d’Africa fino al Mediterraneo centrale.

Il report spiega bene le rotte che i migranti africani battono e, soprattutto, sottolinea che tutti, a prescindere da censo, sesso, paese di provenienza, età, sono costretti ad affrontare il viaggio affidandosi ai trafficanti. Non esiste, de facto, un metodo legale per raggiungere l’Europa. Un dato certificato da barriere burocratiche e fisiche ormai evidenti che perpetua un sistema assurdo di regolamentazione dei flussi migratori.

A tutti i morti in mare, poi, si aggiungono i dispersi e i traumatizzati per ogni sorta di abusi e per il viaggio su imbarcazioni precarie che, oltre agli enormi pericoli potenziali, crea danni irreversibili sulle menti di individui e sui loro corpi (una delle conseguenze più usuali e atroci dei viaggi sui barconi sono le ustioni che occorrono agli arti a contatto con acqua salata e carburante sul fondo della barca).

Dalle interviste raccolte da chi vi scrive dal 2014 a oggi, così come da dati di organismi specializzati, risulta che per una persona arrivata viva all’imbarco sul Mediterraneo o sull’Egeo, almeno due o tre si perdono lungo il cammino. Se è complesso tenere il triste conteggio di morti in mare – secondo calcoli per difetto sarebbero circa 35mila le persone che hanno trovato sepoltura nel Mediterraneo dal 2000 a oggi, il cimitero a cielo aperto più grande dell’epoca contemporanea – aggiornare il novero di quelli che muoiono nei deserti, nei passaggi di confini tra i più pericolosi al mondo (Mali/Algeria, Etiopia/Eritrea/Sudan, Ciad/Libia etc), nelle carceri o nei lager ciadiani, sudanesi o libici, per citarne solo alcuni, è praticamente impossibile.

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Fermare la mattanza con flussi controllati e legali

Questa macabra danza di centinaia di migliaia di individui, quasi la metà dei quali sono bambini (molti non accompagnati da adulti), è uno dei più grossi e terrificanti paradossi dei nostri tempi. Da questa parte del mondo assistiamo a questa mattanza senza senso alcuno, a questa fabbrica di traumi, ferite e morti, ormai assuefatti.

Bene fa l’Unhcr in un documento di maggio a indicare una serie di misure atte a provvedere sbarchi sicuri, rispetto dei diritti del mare e delle relazioni internazionali, a richiamare le linee guida sul trattamento delle persone soccorse in mare dell’Organizzazione marittima internazionale. Ma la questione da affrontare, il problema dei problemi, è a monte.

Per essere credibile l’Unione europea dovrebbe osservare per l’ultima volta il fenomeno e dire basta: non è più possibile che, per chi fugge da situazioni ad alto rischio per la propria vita, l’unica alternativa per tentare un approdo nel vecchio continente siano i trafficanti. Progettare canali legali, gestire i flussi, fare accordi per una redistribuzione equa e rispettosa dei desideri dei migranti, è l’unica vera soluzione. L’accoglienza riservata a milioni di ucraini in fuga dalla guerra (nel caso dei migranti che cercano di arrivare in Europa da Africa o Asia, parliamo di poche centinaia di migliaia) attraverso un decreto che ha aperto i confini e garantito l’ingresso legale in un giorno, è lì a dimostrarci che si può fare.

Partono i colloqui tra golpisti e forze politiche in Sudan

Dopo mesi di stallo e violenti scontri, sono partiti l’8 giugno i colloqui per porre fine alla situazione di grande instabilità in cui versa il Sudan dal golpe militare dell’ottobre scorso. Il tavolo negoziale è frutto dello sforzo congiunto della missione politica delle Nazioni Unite in Sudan, dell’Unione Africana e dell’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad) – il gruppo regionale dell’Africa orientale composto da otto nazioni – e punta a ricomporre uno scenario politico a pezzi mettendo di fronte generali golpisti e una serie di soggetti politici e di rappresentanza della società civile che da mesi si affrontano senza parlarsi.

Quando il 25 ottobre scorso, dopo giorni di continue tensioni, si è verificato un colpo di stato a opera dei militari che ha condotto all’arresto del primo ministro Abdalla Hamdok (rilasciato dopo mesi) e alla presa totale del potere, non si è solo consumato un atto politico violento. Si è messo fine a uno degli esperimenti più interessanti avvenuti in Africa negli ultimi decenni. Le speranze suscitate nell’aprile 2019 dalla Primavera sudanese, la rivoluzione sostanzialmente incruenta che portò alla destituzione del despota al-Bashir e all’innesco di un percorso di transizione verso una democrazia mai pienamente sperimentata nel paese, crollate quella sera, non sono mai state riaccese.

Il governo composto per la prima volta da civili (al 50 per cento) rappresentava una assoluta novità e aveva innescato una transizione democratica in Sudan dopo quasi tre decenni di feroce repressione e isolamento internazionale sotto la guida del presidente islamista radicale Omar al-Bashir (in attesa di venire giudicato all’Aja con le accuse di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità).

I colloqui, però, partono subito male. La principale alleanza pro-democrazia del paese, ha deciso di boicottare l’incontro e denuncia l’impossibilità a trattare con chi ha messo in atto una continua repressione nei confronti di coloro che protestano. Per raggruppamenti come le Forze per la dichiarazione di libertà e cambiamento (Fdlc), un’alleanza di partiti politici e movimenti, i colloqui dovrebbero portare «alla fine del colpo di stato e all’istituzione di un’autorità democratica civile».

È assolutamente inaccettabile, per loro e per chi ha a cuore le sorti del paese, che gruppi filo-militari e islamisti alleati del governo di al-Bashir partecipino ai colloqui. L’inviato dell’Onu per il Sudan, Volker Perthes, si è detto fiducioso di un processo che affronterà temi fondamentali per la transizione tra i quali la nomina di un primo ministro civile e una Costituzione, oltre alle elezioni da tenersi al termine della transizione.

Il generale Abdel-Fattah Burhan, leader del colpo di stato e capo del Consiglio sovrano, ha definito i colloqui una «opportunità storica per completare la fase di transizione» e ha assicurato che i militari sono impegnati a «concludere la transizione e indire elezioni libere e democratiche». Le Fdlc, al fine di creare reale fiducia, hanno chiesto misure concrete come il rilascio dei detenuti e la cessazione delle violenze contro i manifestanti.

Dimora di ruggine di Khadija Abdalla Bajaber

A cura di Libreria GRIOT (Trastevere, Roma),  la prima libreria in Italia interamente dedicata alla cultura dell’Africa e della diaspora e del Medio Oriente

Khadija Abdalla Bajaber è l’autrice di questo romanzo sorprendente, tradotto da Alessandra Castellazzi e pubblicato dalla casa editrice 66tha2nd lo scorso gennaio.

Come la sua protagonista Aisha, Bajaber è di Mombasa e ha ascendenze Hadrami, una popolazione che dal sud della penisola araba si è sparpagliata nel corso dei secoli dal Corno d’Africa all’oceano Indiano, all’Indonesia. Bajaber è quindi figlia di quella stretta connessione tra le due sponde del mar Rosso dalla quale è nata la cultura swahili, ponte tra Africa e Arabia.

Bajaber è una giornalista e con questo romanzo di esordio, nel 2021, ha vinto il Graywolf African Fiction Prize, un premio istituito dalla casa editrice no profit americana Graywolf per le opere prime dal continente africano.

Il romanzo segue la giovane Aisha alla ricerca di suo padre, pescatore disperso in mare. La donna dovrà affrontare prove incredibili, insieme ad Hamza, un sapiente felino e, pur amando il mare, dovrà assistere a una sua riduzione a luogo di terrore: morti annegati e mostri spaventosi tra cui Baba wa Papa, il re degli squali, creatura marina e soprannaturale dai cui riuscirà a salvarsi. Sarà però un’avventura che la cambierà e le darà la forza di rifiutare quello che la famiglia vuole per lei e cercare la sua strada.

Dimora di ruggine è un libro che si pone al centro della recente esplosione in Africa del genere fantasy, a cui il volume aggiunge però un ricco patrimonio di leggende e storie provenienti dal mondo swahili, arabo e musulmano. Un mix originalissimo che prende elementi classici e tradizionali, come quello del gatto parlante – uno degli animali più celebrati nella religione musulmana – o il jinn del mare, per unirli in una storia modernissima che parla di indipendenza femminile con uno stile avvincente e visionario, fatto di animali dialoganti, pesci-uccelli e relitti marini. Il romanzo di Bajaber è sicuramente uno degli esordi più interessanti degli ultimi mesi, tra molti usciti in questo periodo di grande interesse per la letteratura africana da parte delle case editrici italiane.

News dal continente:

  • In Eritrea:        

Situazione allarmante in Eritrea dove una delle dittature più dure del mondo contemporaneo, a capo della quale siede da circa trent’anni Isaias Afewerki, continua a seminare terrore e povertà. La scorsa settimana è stato pubblicato il rapporto del relatore speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani. Il documento rileva con preoccupazione la «crescente militarizzazione del paese e la continua coscrizione a tempo indeterminato della popolazione», e che il coinvolgimento dell’Eritrea nella guerra in Tigray continua. La presenza eritrea nel conflitto nord-etiope ha portato anche «all’aumento dei rastrellamenti, al reclutamento di bambini soldato e al rapimento e all’arruolamento forzato di rifugiati eritrei per essere inviati al fronte». Persiste, inoltre, la sistematica violazione dei diritti umani, tra cui la detenzione arbitraria. La situazione desolante ha condotto a un fenomeno di svuotamento del paese che, nonostante durissimi sistemi di vigilanza alle frontiere, continua a registrare un esodo di massa a ritmi di migliaia al mese.

  • In Etiopia/Israele:

Come riporta Africa Rivista, 340 ebrei etiopi sono sbarcati all’aeroporto internazionale Ben Gurion di Tel Aviv la scorsa settimana. Sono immigrati condotti in Israele nell’ambito dell’Operazione Tzur Israel iniziata a dicembre 2020, che ha già permesso di ricongiungere 3mila etiopi di fede ebraica ai loro parenti che vivono da tempo nello stato mediorentale. I Falasha, la cosiddetta tredicesima tribù d’Israele, sono gli ebrei d’Etiopia, un gruppo religioso con un rito proprio che è riuscito a mantenersi nei secoli fedelissimo alle proprie tradizioni.

In Congo/Sud Sudan:

C’era grandissima attesa per l’arrivo del papa in due tra i paesi più martoriati da guerra e povertà d’Africa e del mondo, Congo e Sud Sudan. Purtroppo, però, fedeli, politici e popolazione dovranno sperare in una nuova data: il papa, su consiglio dei medici, è stato costretto a rinviare il suo viaggio, previsto dal 2 al 7 luglio, a causa di un dolore al ginocchio. L’annuncio arriva pochi giorni dopo che il Vaticano aveva diffuso un programma dettagliato per il viaggio di sei giorni a Kinshasa, Goma e Juba. «Il Santo Padre», si legge in una nota della Sala Stampa della Santa Sede, «accogliendo la richiesta dei suoi medici e per non compromettere i risultati delle terapie al ginocchio ancora in corso, è costretto a rinviare il suo viaggio a data da destinarsi».

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