«Siamo figli dell’Africa e di un’avvincente storia di diversità che ci ha fatto giungere fin qui» (Donald Johanson, scopritore di Lucy, l’australopitecina rinvenuta nel novembre 1974 nella regione di Hadar, Etiopia)

È in partenza Afriche, la newsletter di Domani a cura di Luca Attanasio che ogni martedì pomeriggio racconterà l’Africa al plurale. 

Cos’è Afriche

Quanto sappiamo veramente dell’Africa? Il continente che comincia a nord del parallelo di Portopalo e finisce a Cape Town appare solo nell’1,6 per cento dei notiziari prime time ed è quasi completamente assente dalle pagine dei quotidiani. L’immagine che arriva in Europa proietta solo un immenso monolite afflitto da guerre, miseria, dittature, carestie e slum. Manca l’Africa della rapidissima crescita economica, delle democrazie emergenti, delle tecnologie, dell’innovazione; l’Africa delle migrazioni interne, infinitamente superiori a quelle verso il Vecchio continente; l’Africa della moda, della cultura, del cinema e della letteratura. E ci sono più differenze tra Rabat e Windhoek che tra Lisbona e Tallin.

Curata da Luca Attanasio, Afriche è l’hub dei narratori di Africa. Proverà a favorire una nuova narrazione decolonizzata dell’Africa per comprendere meglio un continente impoverito ma ricco, espropriato, accaparrato ma in via di sviluppo. Attraverso storie di diaspore, economia e lavoro, imprenditoria, cooperazione, studio, cultura, arte, ambiente, costume. In arrivo ogni martedì pomeriggio a partire dal 10 maggio, Afriche è il riflettore puntato sul melting pot misconosciuto dei pronipoti di Lucy.

L’Europa fuori dall’Africa. Ma entra la Russia (e i new player)

FILE - Russian President Vladimir Putin, center, poses for a photo with leaders of African countries at the Russia-Africa summit in the Black Sea resort of Sochi, Russia, on Oct. 24, 2019. Amid a worldwide chorus of condemnation against Russia's war on Ukraine, Africa has remained mostly quiet — a reminder of the Kremlin's considerable influence over the continent. (Sergei Chirikov, Pool Photo via AP, File)

Nello sliding doors in salsa africana, esce l’Europa ed entrano nuovi attori. L’Africa si sta progressivamente deuropizzando ma il fenomeno non fa rima con decolonizzazione. Piuttosto sottolinea un crescente sganciamento per mancanza di strategia, errori di valutazione o per approcci vetusti, ancora legati a dinamiche di stampo colonialista.

L’area in cui il downsizing europeo è più evidente è il Sahel. La fascia che taglia in due l’Africa e va dritta dal Senegal all’Eritrea, vive in una instabilità endemica in gran parte dovuta alla penetrazione capillare di gruppi jihadisti. È qui che si è concentrata una significativa presenza europea che, sotto il vessillo della war on terror, ha progressivamente dispiegato forze militari in varie aree e accumulato fallimenti.

Il caso forse più simbolico dell’uscita di scena europea è senza dubbio il Mali. Qui la giunta golpista al potere da un anno, sostenuta da una popolazione che imputa la situazione drammatica in cui versa proprio all’incapacità francese ed europea di contenere l’avanzata jihadista nonostante il miliardo di euro annuo speso e le decine di migliaia di uomini schierati dal 2013, ha messo in scena una sorta di seconda indipendenza. Dopo l’annuncio di Parigi di un ritiro delle forze, ha prima espulso l’ambasciatore francese e poi sollecitato i militari ancora presenti a febbraio, ad «andarsene senza ritardi».

Nel frattempo gli scontri con il jihad in Burkina Faso sono in esponenziale aumento dal 2015 e i rapporti con la Francia e gli europei tesissimi: ai tricolori bruciati dalle folle si sostituiscono le bandiere della Russia planata a sostegno dei golpisti di Ouagadougou. Nell’area, insicurezza, instabilità, scarsi sostegno ed efficacia occidentali, hanno portato, nel giro di poco più di un anno, a cinque colpi di stato riusciti (Burkina Faso, Ciad, Guinea, Mali e Sudan) e due falliti (Guinea Bissau e Niger). In questo mix di volatilità, anti-occidentalismo e ricerca di appoggi da parte dei golpisti, si sono inseriti una serie di nuovi attori. Prima fra tutti la Russia.

Proprio mentre circa 2.500 militari francesi uscivano dal Mali, facevano il loro ingresso i famigerati battaglioni russi Wagner. Il gruppo paramilitare, fondato nel 2014 in appoggio ai separatisti filorussi in Ucraina orientale, impazza ormai da tempo nella regione e gode della fiducia cieca dei governi golpisti di Mali, Burkina Faso e Ciad. Wagner, nel frattempo, sta conducendo operazioni militari in Centrafrica, Mozambico, Libia e altre zone.
Lasciando il Sahel e le regioni a ridosso, si nota ugualmente uno spostamento dell’asse di influenza geopolitica dall’Europa verso altri soggetti. Fino al 2019, Francia, Italia e Spagna erano i primi tre partner commerciali di Marocco, Algeria e Tunisia mentre l’Ue assorbiva oltre il 50 per cento degli scambi nel Maghreb. Negli ultimi tempi, invece, come ha affermato ad Asia Times Riccardo Fabiani, dell’International Crisis Group «si respira un senso di ritiro dell’Europa».

Inevitabile, anche in questo caso, la tempestiva comparsa sulla scena di nuovi attori. In Libia la Turchia con le sue truppe è ormai una potenza. Le sue imprese e i suoi prodotti sono ovunque in Algeria, Tunisia e Marocco, le sue armi interessano anche il conflitto in Casamance, la regione tribolata del Senegal. Allo stesso tempo, in tutto il Maghreb spopola il cosiddetto “soft power” turco che entra nelle case attraverso le serie tv e con gli scambi educativi.

In Nord Africa si consuma poi una lotta di influenza tra Turchia e Qatar da una parte ed Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita dall’altra. La penetrazione di altri attori in vari paesi africani, si è avvalsa anche della cosiddetta diplomazia dei vaccini con Russia a distribuire Sputnik e Cina dosi di Sinopharm. Il matrimonio con esecutivi dirigisti o militari è spianato dalla scarsa inclinazione dei new player verso la legittimità democratica. I loro metodi violenti, l’assenza di trasparenza, l’indifferenza verso elezioni, legalità e diritti, li rende partner ideali.

Che qualcosa non stia andando più nel verso giusto (o favorevole all’Ue) deve essere ormai risultato chiaro anche a Bruxelles. Ed è forse nella direzione di un rilancio di presenza e collaborazione che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha annunciato a febbraio il piano di investimenti pubblici e privati per l’Africa di 150 miliardi di euro entro il 2027.

La novità più interessante, emersa più chiaramente nel Summit Ue-Ua svoltosi a Bruxelles gli scorsi 17 e 18 febbraio, è rappresentata dal tipo di approccio che l’Ue sembra aver voluto imboccare. Il white paper di partenariato strategico sottolinea la necessità di affrancarsi dal rapporto donatore-beneficiario. «Il tempo delle briciole dalla tavola», come ha dichiarato il presidente del Sudafrica Ramaphosa nella due giorni, deve finire.

L’Europa, quindi, rischia di uscire dal continente africano per una serie di clamorosi errori e di lasciare il posto a soggetti in gran parte senza scrupoli che aumentano dubbi e timori sul futuro politico. Ma anche perché sconta secoli di colonialismo, post-colonialismo, rapporti sempre caratterizzati da una dinamica “donor-recipient” in cui c’è un buono e un buon selvaggio.

L’Africa si è liberata dell’imperialismo europeo che ha sterminato masse di persone, soggiogandole e trattandole come sub-umani per secoli, solo cinquanta anni fa. Sebbene ancora politicamente giovane e vessata da mille problemi, non ne può più del rapporto di sudditanza né di una retorica super-datata che ne fa il continente della miseria e delle guerre.

È l’unica zona del mondo in crescita demografica (entro il 2050 passerà da 1,2 a 2,4 miliardi), fenomeno che decreterà un boom economico secondo solo al Sud-Est Asiatico. L’anno scorso, nonostante il Covid, gli investimenti privati in Africa hanno raggiunto un livello record di 7,4 miliardi di dollari, un salto del 118 per cento dal 2020. L’età media di meno di vent’anni, poi, ne fa un continente dirompente che nel breve tempo guarderà all’Europa e, con tutta probabilità, proporrà di «aiutarci in casa nostra».

In Etiopia si apre la stagione del dialogo nazionale tra dubbi e proteste

In Etiopia la popolazione convive con la realtà della guerra da ormai un anno e mezzo. E in questo infinito lasso di tempo, il conflitto è tracimato dalla regione del Tigray dove scoppiò nel novembre del 2020 in varie altre aree come Amhara, Afar e Oromia. La buona notizia è che a breve dovrebbe partire il primo dialogo nazionale per la pace. La brutta è che fino a ora, non sono stati invitati  il Tplf (Fronte popolare di liberazione del Tigray), la formazione politica principale del Tigray e primo nemico del governo centrale e il suo principale alleato, l’Ola (Esercito di liberazione Oromo). Senza di loro è difficile immaginare uno scenario di pace realistico e duraturo.

Inevitabili, ovviamente, le critiche di moltissime forze politiche, anche tra quelle invitate a partecipare. «Questo dovrebbe essere un dialogo onnicomprensivo», ha dichiarato a The new humanitarian Mussa Adem, capo della formazione di opposizione Afar people’s party. «Se il Tplf non partecipa, con chi parleremo?».

A far discutere è anche il fatto che la convocazione del tavolo non è coincisa con il semaforo verde totale alla consegna di aiuti alla popolazione in drammatica emergenza umanitaria: dei 6,5 milioni di abitanti della regione tigrina, 5,2 si trovano in stato di gravissimo bisogno alimentare. I profughi interni hanno ormai superato di molto i 2 milioni mentre quelli esterni aumentano di giorno in giorno. Tra attacchi ormai quotidiani alla commissione per il Dialogo, accusata di poca trasparenza e di non aver favorito  l’inclusività, ci si avvia a vivere una stagione che molti speravano di svolta definitiva mentre altri considerano l’ennesima opportunità buttata.

A dare qualche timida speranza, giungono dichiarazioni da parte di rappresentanti dell’Ethiopian political parties joint council, un ombrello di 53 partiti di opposizione, che parlano del dialogo come «unica possibilità per la nazione» anche se chiedono al primo ministro Abiy di fermare temporaneamente il processo per dare più tempo all’organizzazione.

Su uno sfondo tetro fatto di un numero enorme di morti, sfollati e di una vera e propria emergenza umanitaria, aggravata da una terribile siccità, di vecchie e nuove grane che Addis Abeba deve affrontare, come le rivolte nella regione del Benishangul-Gumuz o tra le comunità Oromo e Amhara, si accende un primo, baluginante bagliore di pace. Nella speranza che il processo non sia morto «ancor prima di nascere» come ha dichiarato in una nota ufficiale il True democracy party.

Decolonizzare la mente di Ngῦgῖ wa Thiong’o

Nel tentativo di narrare, interessarsi, osservare e raccontare l’Africa, noi europei dobbiamo fare i conti con secoli di colonialismo e successive narrazioni del continente africano irrimediabilmente figlie di quel periodo storico. Afriche muove i primi passi proprio dalla coscienza delle difficoltà che il nostro lavoro dovrà sfidare. A questo proposito, ho ritenuto molto opportuno aprire lo spazio dedicato alle segnalazioni di libri, film, spettacoli, atti culturali riguardanti l’Africa, con la  presentazione di un testo storico che già dal titolo aiuta a dare il tono del nostro percorso.

Ngῦgῖ wa Thiong’o è uno dei più importanti intellettuali del continente africano. Nato nella colonia britannica del Kenya nel 1938, ha scritto testi fondamentali per la costituzione e la diffusione del pensiero anticoloniale e decoloniale. Decolonizzare la mente è una raccolta di saggi sulla letteratura, sul teatro, sulla narrativa africani e su come il linguaggio sia stato usato dal colonizzatore per soggiogare le popolazioni africane annullandone la fiducia «nel proprio nome, nella propria lingua, nelle proprie capacità».

Fin dagli anni Settanta Ngῦgῖ ha rivendicato il primato delle lingue africane, scegliendo di abbandonare l’inglese e di scrivere nel suo idioma natale, il gĩkũyũ, perché convinto che la letteratura africana possa essere scritta solo nelle lingue dei nativi e che questo fosse l’unico modo per opporsi alle politiche culturali omologanti del neocolonialismo. Per decolonizzare le menti degli oppressi e combattere l’oppressore con le proprie parole, bisogna che questi possano affermare la propria cultura nel linguaggio in cui essa si sviluppa e si esprime.

Quella di scrivere in gĩkũyũ è stata una scelta letteraria e profondamente politica, accompagnata da un pensiero marxista vicino alle teorie anticolonialiste dell’intellettuale caraibico Frantz Fanon e da decisioni personali, come la rinuncia al proprio nome inglese, James, e al cristianesimo. 

Incarcerato dal regime di Daniel arap Moi per aver scritto una pièce teatrale critica contro il governo del Kenya, nel 1980 sarà costretto all’esilio in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Proprio a questo periodo risale il ciclo di conferenze da cui sono tratti i quattro brevi saggi contenuti in Decolonizzare la mente.

La scelta radicale di scrivere in gĩkũyũ però non ha impedito a Ngῦgῖ wa Thiong’o di diventare una delle voci africane più ascoltate e lette, con una produzione letteraria di romanzi, memoir, saggi e pièce teatrali, sempre in cima alla lista dei candidati al premio Nobel per la letteratura.

A cura di Libreria GRIOT (Trastevere, Roma), la prima libreria in Italia interamente dedicata alla cultura dell’Africa e della diaspora e del Medio Oriente.

Notizie dal continente:

  • Nella Repubblica Centrafricana

Dopo sette anni di attesa, la Corte penale speciale della Repubblica Centrafricana è finalmente pronta ad aprire il suo primo processo in quello che potrebbe essere un momento chiave per promuovere la legalità in un paese segnato da decenni di violenza.

Il tribunale è stato istituito per perseguire i crimini di guerra, il genocidio e altri crimini contro l’umanità commessi nel paese dal 2003. Al di là del processo che subiranno tre membri del Return, reclamation, rehabilitation party, presunti responsabili di massacri, la scelta rappresenta un simbolo per uno dei paesi più devastati dal conflitto e la povertà del continente, che vuole finalmente voltare pagina. Inaugura un metodo per alcuni considerato un modello con una corte composta da giudici locali e stranieri, supportati dalle Nazioni unite, e ha un mandato di cinque anni prima di divenire completamente autoctona.

  • In Kenya:

Google ha scelto Nairobi per il suo primo centro di sviluppo di prodotti nel continente. L’annuncio arriva dopo che il gigante tecnologico ha rivelato un piano di investimento di 1 miliardo di dollari in vari progetti in Africa nei prossimi cinque anni. Il noto brand prevede che entro un decennio, 800 milioni di persone useranno internet nel continente.

  • In Sudan: 

Recrudescenza di scontri tribali nella regione del Darfur. Al termine di una domenica di Pasqua di sangue ben 168 persone sono rimaste uccise. I combattimenti nella provincia arrivano mentre il Sudan è alle prese con una grave crisi di instabilità scatenatasi a seguito del colpo di stato militare dello scorso ottobre. La presa di potere degli ufficiali, oltre a far precipitare il paese nel caos, mette in serio pericolo uno dei tentativi più interessanti di democratizzazione di un paese vessato dalla dittatura per decenni, e che era riuscito ad affrancarsene grazie a una rivolta popolare sostanzialmente incruenta che estromise Omar al-Bashir nell’aprile 2019.


Per questa settimana Afriche si ferma qui. Ci incontriamo qui martedì prossimo. Se vorrete darmi consigli, fare commenti, critiche, o se desiderate proporre temi, spunti, discussioni, contributi o eventi scrivetemi a: attaluca@gmail.com (nell’oggetto inserite Newsletter Afriche) . Per comunicare direttamente con Domani, invece, scrivete a lettori@editorialedomani.it.
A presto!
Luca Attanasio

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