Alexander Stubb dirige la School of Transnational Governance dell’istituto universitario europeo. In Finlandia tra il 2008 e il 2016 ha ricoperto incarichi di governo, come primo ministro, ministro delle Finanze e degli Esteri. Eurodeputato e poi membro del parlamento finlandese, tra il 2017 e il 2020 è stato anche vicepresidente della Banca europea degli investimenti.

Il parlamento finlandese ha dato il via libera alla richiesta di adesione alla Nato. Qual è l’impatto di questa scelta sulla ricerca della pace?

Nessuno. L’adesione alla Nato riguarda la questione, distinta e più ampia, della sicurezza europea. Il Cremlino ci considerava al pari di membri dell’alleanza già da tempo: siamo più compatibili con la Nato di quanto non lo siano alcuni membri attuali.

Lei ha dichiarato che «la nostra adesione alla Nato è stata decisa il 24 febbraio». In che misura la scelta è dipesa dall’invasione dell’Ucraina? I dispacci pubblicati da Wikileaks nel 2011, compresi gli scambi tra l’ambasciata Usa e Jori Arvonen, suggeriscono che la strada fosse tracciata più di un decennio fa.

Arvonen era il mio consigliere diplomatico, quando io ero ministro degli Esteri in Finlandia. Bisogna risalire al 2008, e alla guerra in Georgia: oltre a essere ministro degli Esteri, ho avuto la presidenza di turno dell’Ocse, e sono stato coinvolto nella mediazione per la pace assieme al ministro degli esteri francese dell’epoca, Bernard Kouchner. La gloria è andata poi al presidente francese Nicolas Sarkozy, ma il cessate il fuoco è stato scritto sul mio laptop. In quel periodo, ho stilato un discorso, distribuito ai nostri ambasciatori, in cui suggerivo di rinvigorire il dibattito sull’adesione alla Nato. Al contempo, il nostro ministro della Difesa ha pronunciato a Washington parole chiare: «Ci sono tre rischi per la nostra sicurezza: Russia, Russia e… Russia». Del resto era dagli anni Novanta che sostenevamo lo scenario dell’ingresso nell’alleanza, ma non era ancora realistico. La combinazione tra l’idealismo – cioè la cooperazione con Mosca – e il realismo – la nostra preparazione in termini di difesa – ha comunque contribuito a renderci il più possibile compatibili con la Nato nel corso degli anni.

Ci sarà una «europeizzazione» della Nato? Chi ne beneficerà? Gli Usa? L’Ue?

Dalla nostra adesione uscirà una Nato più europea, e di questo beneficeranno sia l’Ue, che gli Usa e il Canada. Paesi baltici e nordici saranno più sicuri. Nel complesso è una buona mossa per la sicurezza europea.

I ministri della Difesa Ue in queste ore hanno discusso di come implementare la «bussola strategica», c’è anche il tema degli acquisti di armamenti. Secondo lei l’Ue dovrebbe spendere di più per le armi?

Assolutamente sì. Il due per cento è un buon traguardo. Bisogna anche coordinarsi meglio, per non duplicare gli stessi sforzi, sia tra stati Ue, che tra Ue e Nato. Non basta fare bene nel settore tradizionale, bisogna fare di più anche sui nuovi fronti: droni, intelligenza artificiale…

Lei nel 2010 ha contribuito alla nascita dello European Institute of Peace. Le pare abbia funzionato? La strada che ha appena prospettato le pare compatibile con la pace?

Presiedo anche la fondazione Martti Ahtisaari. Sono stato coinvolto in mediazioni per la pace, e so che tra guerra e pace c’è un equilibrio da tenere: bisogna saper giudicare quando è stato oltrepassato un limite. Non lo abbiamo fatto nel 2008 con la Georgia, e Putin ha tratto le sue conclusioni; poi nel 2014 con la Crimea, e ancora una volta Putin ha tirato le sue conclusioni. Con l’invasione su larga scala dell’Ucraina, siamo a dir poco lontani dalla pace. Mi aspetto una guerra che si protrae. Non vedo segni di mediazione.

«Il denaro è il miglior mediatore», parole sue. Lei è stato vicepresidente della banca europea degli investimenti, che oggi si prepara alle spese «multimiliardarie» per la ricostruzione in Ucraina, alla quale anche la Commissione europea si dice pronta a contribuire. Come funzionerà la ricostruzione?

Uno dei problemi per la banca europea degli investimenti (Eib) durante la guerra è che non può investire in armi, ciò che può fare è appunto aiutare per la ricostruzione. Che è un punto chiave: immagino un “Piano Marshall 2.0” che sia una combinazione di tre fattori. Uno è l’investimento delle banche pubbliche, ed Eib sarà coinvolta. Poi serve denaro privato. Infine, sussidi e supporto finanziario sia dalla Commissione europea che a livello bilaterale, fra stati. Sarà una “ricostruzione per una Ucraina europea”.

Quando lei era al governo, l’Europa ha attraversato crisi finanziaria e politiche di austerità. Oggi, alla luce di pandemia e guerra, leader come Draghi e Macron spingono per un’altra idea di patto di stabilità, che consideri gli investimenti in difesa, verde, digitale. Le regole vanno riviste?

Entriamo in un momento molto complicato per l’economia europea, e presto l’opinione pubblica entrerà nella war fatigue: sentirà il peso di inflazione, prezzo dell’energia, costo del cibo, spese per l’accoglienza. I leader Ue devono comunicare il prezzo di guerra o pace, perché non sarà un prezzo basso: significherà una riduzione del welfare. Il patto di stabilità ha funzionato bene per evitare comportamenti irresponsabili in tempi buoni, ma ora sono cattivi: gli strumenti fiscali andranno rivisitati.

Ai tempi della convenzione e della bozza di costituzione europea, lei ha lavorato a quei progetti, poi abortiti. Oggi Macron, Letta, e lei stesso, invocate una confederazione, oltre che il superamento dell’unanimità. Ma c’è già il fronte dei contrari. Come trovare il consenso politico per mettere a segno l’idea?

Mi sento più vicino alla visione di Letta che di Macron. Credo in un’Europa aperta, dove chi ha la volontà e la possibilità può scegliere il club nel quale entrare. Immagino tre tiers, tre aree: una è l’Ue di oggi, i suoi 27 membri, e la flessibilità che già c’è (non tutti sono nell’eurozona, ad esempio). La seconda è costituita dai paesi che vogliono entrare nell’Ue: Ucraina, Georgia, Moldavia, i paesi dei Balcani, e pure la Turchia. Devono avere un percorso chiaro verso l’adesione. Il terzo livello è per chi non vuole entrare, ma cooperare sì: Regno Unito, Svizzera… Servono strutture istituzionali e vertici che includano tutti i 40 paesi: fossero anche solo due summit interministeriali all’anno, vanno fatti. Il problema è cambiare i trattati: il progetto non sopravvivrà a questo scoglio. La riforma dei trattati richiederà anche referendum e non ce la faremmo. Una nuova confederazione necessita perciò di un suo trattato fondativo, anche solo una dichiarazione: serve un “momentum” per l’allargamento.

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