L’unico modo per Benjamin Netanyahu di restare al potere è allargare la guerra. E visto che quasi nessuno sembra desiderarlo, l’unico modo di arrivarci è provocare l’Iran, trascinando anche gli americani nel conflitto.

Ecco perché Israele sta compiendo attentati mirati contro bersagli iraniani, com’è avvenuto tra dicembre e gennaio in Siria o a Beirut e continua ad accadere. La tattica pare funzionare: per la prima volta Teheran ha reagito in prima persona (e non mediante milizie sciite o altri alleati) a colpi di missili, ma cercando di evitare in particolare gli americani. Gli stessi Stati Uniti hanno dichiarato di non essere stati attaccati dall’Iran ma solo dalle milizie sciite.

È un gioco di scacchi: il premier israeliano conta sul fatto che Washington vedrebbe bene un indebolimento iraniano e potrebbe lasciarsi convincere. Netanyahu aveva parlato di “sette fronti” aperti per Israele a dimostrazione che per lo stato ebraico l’unica via è la guerra generale contro i suoi vicini arabo-musulmani.

L’Arabia Saudita cerca di abbassare la tensione con una proposta che riguarda Gaza ma la polemica sul “secondo stato” ha provocato varie dichiarazioni da parte israeliana che svelano una volta per tutte il programma sovranista-suprematista dell’ultra destra e cioè: nessuno stato per i palestinesi, in nessuna forma. Non viene accettata nemmeno la formula disarmata proposta da Joe Biden, tanto da far irritare non solo gli Usa ma anche i britannici solitamente impassibili.

È ovvio che Hamas rifiuti tali ipotesi, anche perché la situazione dimostra che paradossalmente lo stato palestinese potrebbe nascere soltanto nella Striscia di Gaza dove il gruppo terrorista rimane forte. Come tutti, anche Teheran è stata sorpresa dall’attacco del 7 ottobre che ha rimescolato tutte le carte.

Fino al giorno prima l’Iran puntava sulla distensione regionale e aveva firmato un accordo con Riad (con mediazione cinese) e previsto di ricominciare a negoziare con gli Usa sul nucleare proprio a metà ottobre. L’attività dei suoi alleati – Houthi yemeniti, Hezbollah e milizie sciite irachene e siriane – resta alta mantenendo la pressione su Israele e sugli occidentali ma non sembra sufficiente a scatenare un conflitto regionale. È da tener presente che non esiste soltanto una forma di controllo iraniano sui suoi associati: c’è anche una pressione di questi ultimi su Teheran perché si dia da fare, tanto che l’Iran si è sentito in dovere di intervenire direttamente.

Ma le scelte appaiono confuse, come quella di bombardare Erbil o in Pakistan. L’asse della resistenza (il nome che si sono dati gli anti israeliani) preme perché tali attacchi proseguano ma gli iraniani restano prudenti anche per non dare occasione e spazio ai nemici interni. Il regime è in crisi di legittimità a causa della ribellione delle donne; lo stato islamico del Kohrasan rimane un nemico temibile (vedi l’attentato del 2 gennaio che ha fatto più di 90 vittime); arabi ed altre minoranze potrebbero rialzare la testa. Teheran ha anche un fronte caldo aperto con armeni e turchi: rappresenta l’unica difesa rimasta per Erevan ma allo stesso tempo non vuole entrare in crisi con Ankara coinvolgendo la Siria (dove ha lanciato comunque un segnale colpendo l’area di Idlib).

Se Israele continuerà con le uccisioni mirate di capi pasdaran, l’Iran non potrà che continuare a reagire: è la speranza di Netanyahu. Israele e tutto l’occidente sono ostaggio di tale pericoloso calcolo che appare piuttosto come un giocare con il fuoco di cui non si possono prevedere gli effetti.
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