L’organizzazione non governativa Human Rights Watch ha raccolto una serie di testimonianze e documenti che illustrano una serie di violenze brutali compiute da parte della guardia di frontiera dell’Arabia Saudita contro i migranti africani, in particolare etiopi, provenienti dallo Yemen. Le dichiarazioni rilasciate dai sopravvissuti hanno reso evidenti la sistematicità e la regolarità di questi attacchi, eseguiti tramite il ricorso a esecuzioni sommarie e all’utilizzo di armi esplosive contro gruppi di migranti non in grado di difendersi. 

Inoltre, sono stati documentati episodi di migranti che hanno subìto danni permanenti e amputazioni perché picchiati con pietre e spranghe, oppure di altri costretti a violentare le donne del gruppo davanti agli agenti sudisti. L’organizzazione, in realtà, si è occupata di documentare tali uccisioni a partire dal 2014, ma aveva sempre rilevato degli episodi puramente sporadici. Soltanto la progressiva evoluzione dell’indagine ha permesso di comprendere la reale natura sistematica delle operazioni.

Infatti, la partecipazione alle violenze non solo degli agenti di frontiera sauditi, ma anche di “unità specializzate” induce l’organizzazione a ritenere che questi atti siano espressione di una politica intrapresa dal governo saudita per provvedere all’uccisione dei migranti: se così fosse, ci sarebbero tutte le basi per prefigurare un vero e proprio crimine contro l’umanità.

Un lungo viaggio

I migranti che decidono di affrontare la rotta che li porta dalla Somalia allo Yemen, per poi giungere in Arabia Saudita, sono etiopi nel 90 per cento dei casi: nonostante i rischi del viaggio, molto decidono di abbandonare l’Etiopia per via della guerra devastante nella regione del Tigray e le condizioni socioeconomiche insostenibili.

L’Arabia Saudita rappresenta una meta così ambita per i flussi migratori in quanto costituisce insieme agli altri paesi mediorientali un paese estremamente ricco con, tuttavia, un indice di sviluppo umano molto basso. In particolare, gli ambiziosi piani di investimento dettati dalla rendita petrolifera, su cui il paese basa la sua ricchezza, hanno richiesto ingenti quantità di lavoro che la popolazione autoctona non è mai stata disposta a svolgere, rendendo necessario favorire le migrazioni. 

Negli ultimi anni, quest’intensa immigrazione è stata percepita come la causa principale della dilagante disoccupazione presso la popolazione locale. Quest’associazione può essere dovuta non solo a un’importante crescita demografica, ma anche alla scarsa attrattività del settore privato per la popolazione del luogo a causa dei bassi salari e le dure condizioni di lavoro, in netta contrapposizione con gli importanti benefici previsti per i nativi.

Per tale ragione, il governo ha avviato una serie di politiche che prevedono un maggiore controllo dei flussi migratori, sperando che misure del genere possano equilibrare un mercato profondamente diviso. È chiaro che l’equilibrio del mercato non può giustificare le azioni violente intraprese da parte delle forze saudite oppure i rimpatri forzati di migranti precedentemente detenuti in condizioni igienico-sanitarie disumane, sottoposti a maltrattamenti senza aver ricevuto un accusa precisa dei crimini compiuti alla base della detenzione.

In realtà, anche restare in Yemen non è un’opzione preferibile per via della guerra presente nel paese da ben otto anni tra la coalizione militare guidata dall’Arabia Saudita e quella degli Houthi, d’ispirazione sciita, guidati dall’Iran. Questi ultimi, ultimamente, hanno anche iniziato a estorcere tangenti, spesso trattenendo e abusando di coloro che non potevano pagare.

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