I civili in Myanmar vengono ancora uccisi con armi inviate alla giunta militare dalla Russia. È quanto emerge dall’ultimo rapporto del relatore speciale delle Nazioni unite per il Myanmar, Tom Andrews, che ha anticipato i contenuti del documento in un’intervista al Guardian

Andrews presenterà il report il 20 marzo all’Ohchr, il Consiglio per i diritti umani dell’Onu. Il quadro presentato dall’alto funzionario è quello di uno stato «sull’orlo del fallimento», vicino a diventare una “nuova Somalia”, caso paradigmatico di “stato fallito”.

In altre parole, il governo militare del Myanmar, in carica dal colpo di stato del 2021, presto non riuscirà più a espletare le normali funzioni di uno stato sovrano, complice la violenza foraggiata dalle armi russe (e cinesi). 

Il relatore speciale lamenta l’indifferenza del mondo rispetto alla situazione del Myanmar, un dato «frustrante» che impedisce un’efficace azione multilaterale. Consapevole delle violenze, Andrews ritiene che un embargo sulle armi sia necessario per arginare le sofferenze dei civili. 

Armi e responsabilità 

Andrews dice: «Gli stessi tipi di armi che stanno uccidendo gli ucraini stanno uccidendo le persone in Myanmar». La Russia, infatti, ha cominciato a fornire materiale d’armamento alla giunta militare, sin dal golpe del 2021.

Insieme a Mosca, anche Cina e Serbia hanno contribuito a riempire gli arsenali del governo militare, responsabile di immani violenze contro la popolazione civile e i gruppi ribelli che combattono per la libertà del multietnico popolo del Myanmar.

Aiuta a comprendere la drammaticità dello scenario un dato delle Nazioni unite, secondo cui le persone attualmente bisognose di aiuto umanitario sono 17,6 milioni, circa un terzo della popolazione totale dello stato asiatico, rispetto al milione di bisognosi registrati prima del golpe.

Seguire le armi aiuta a comprendere le responsabilità della situazione attuale, mettendo in prospettiva le indubbie responsabilità di un regime violento che, però, dipende in gran parte dal sostegno internazionale, in passato e per altri attori di governo proveniente anche da Israele e Singapore.

Infatti, nonostante la superiorità organizzativa e materiale, l’esercito nazionale fatica a mantenere il controllo delle zone interessate dalle spinte degli insorti. È probabile che, senza armi russe, le forze armate perdano quel vantaggio materiale che, oggi, consente al governo di mantenere una certa stabilità, se non reprimendo la ribellione, almeno terrorizzando la popolazione civile con atti di estrema atrocità.

Le tattiche adottate dall’esercito contro gli insorti ricalcano quelle delle guerre della decolonizzazione, guerre asimmetriche altamente violente in cui una parte, tendenzialmente quella statuale, gode di un netto vantaggio tecnologico sull’altra. In Myanmar, questa asimmetria è possibile proprio grazie agli asset russi e cinesi, soprattutto a quelli aerei, utilizzati per attaccare, senza discriminazione tra obiettivi civili e militari, villaggi, ospedali, templi, scuole.

Armi e potere

Le armi, in Myanmar così come, non a caso, in Ucraina, assumono una capacità d’agire politico non indifferente.

Se da un lato consentono a governi e regimi di usare la violenza contro la popolazione civile, dall’altro costituiscono una risorsa fondamentale per le variegate costellazioni di attori che costituiscono l’insorgenza contro un occupante o un dittatore. 

La capacità degli insorti di accedere alle armi, soprattutto se piccole e leggere, contribuisce a creare network di autorità e a ridefinire le relazioni di potere in prossimità di confini contestati, che si tratti del Donbass tra 2014 e 2023 o del Myanmar sin dalla sua indipendenza nel 1948. 

La proliferazione di armi, infatti, è al contempo incentivo e conseguenza dell’agire politico violento e seguire le armi, ancora una volta, aiuta a preservare la complessità dei gruppi di attori, statali e non statali, coinvolti. 

Casi lontani e differenti – ma paralleli – di insorgenza come quelli, appunto, dell’Ucraina e del Myanmar, non sono, dunque, accomunati solo dalla presenza delle armi russe, ma anche da dinamiche di potere mediate dalle armi stesse, oggetti politici essenziali nella costruzione dei network della violenza. 

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