Durante l’ultimo quarto del Ventesimo secolo si è dispiegata quella che Samuel Huntington definì una «ondata di democrazia», che iniziò in Europa meridionale a metà degli anni Settanta con le transizioni democratiche di Portogallo, Grecia e Spagna, per poi raggiungere l’America Latina, alcuni paesi dell’Asia e, con la fine della Guerra fredda, diversi paesi post-comunisti e dell’Africa sub-sahariana. La portata globale di questa ondata diffuse molto ottimismo sul futuro della democrazia.

Già dai primi anni del Ventunesimo secolo, tuttavia, ha cominciato a farsi strada il timore che all’ondata potesse seguire una fase di riflusso, durante la quale alcune nuove democrazie sarebbero tornate a forme di governo autoritario. Uno dei primi segnali preoccupanti fu il rapido riconsolidarsi dell’autoritarismo in Russia con l’ascesa al potere di Vladimir Putin, di cui forse solo il recente attacco all’Ucraina ci ha svelato le reali conseguenze. A pochi anni di distanza, abbiamo poi assistito al fallimento di molte delle cosiddette “primavere arabe”.

Oggi le grida di allarme sul futuro della democrazia nel mondo si moltiplicano. Non a caso, il centro di ricerca Freedom house quest’anno ha intitolato il suo report L’espansione globale dell’autoritarismo.

Ma stiamo davvero assistendo alla ritirata della democrazia e al ritorno dell’autocrazia su scala globale?

Nuove autocrazie

Il primo punto da chiarire è che l’autocrazia dal mondo non è mai sparita. Oltre a un gruppo di paesi distribuiti tra Africa settentrionale, medio oriente e Asia centro-orientale che sono sempre restati autoritari, è bene ricordare che diversi paesi negli anni Novanta avevano adottato istituzioni democratiche meramente di facciata.

Tra il 2012 e il 2021, il livello globale di democrazia è calato sensibilmente e, con esso, anche il numero di paesi democratici. Tale declino è il risultato di un decennio durante il quale il numero di paesi democratici che sono diventati autoritari è stato nettamente superiore al numero di paesi autoritari che sono diventati democratici.

Proviamo a tracciare l’identikit di queste nuove autocrazie. La maggior parte di esse si trova in Europa orientale e nel sud-est asiatico. I casi più noti sono forse quelli di Ungheria e India, senza dimenticare Serbia, Filippine, Turchia e Benin, che fino a pochi anni fa era considerato una delle democrazie più avanzate dell’Africa sub-sahariana. Appare dunque evidente che la maggioranza dei cambiamenti di regime dalla democrazia all’autocrazia dell’ultimo decennio ha riguardato democrazie relativamente giovani e spesso caratterizzate da economie in via di sviluppo.

Proprio i casi sopra menzionati mettono in evidenza un’altra peculiarità delle nuove autocrazie, e con essa un elemento di discontinuità rispetto all’immagine tradizionale che si ha dei dittatori – spesso capi militari o di movimenti rivoluzionari di varia ideologia – e delle modalità con cui salgono al potere.

Contrariamente a Pinochet, Mussolini e Mao Zedong, per esempio, i vari Orbán in Ungheria, Modi in India, Erdoğan in Turchia non hanno preso il potere tramite colpi di stato o rivoluzioni: sono stati scelti e ripetutamente confermati dai loro cittadini in elezioni più o meno democratiche – ovvero a suffragio universale, multipartitiche e in cui i cittadini sono liberi di scegliere – anche se non sempre del tutto corrette.

In quest’epoca di riflusso autoritario, assistiamo raramente a un vero e proprio crollo o ribaltamento della democrazia, anche se le eccezioni non mancano, considerati i recenti golpe militari in Myanmar e in alcuni paesi africani, il più recente in Burkina Faso. Più di frequente, osserviamo un progressivo “scivolamento” verso l’autocrazia per mano di leader eletti che, una volta al governo, cercano di indebolire la capacità operativa e l’autonomia di quelle istituzioni che dovrebbero controllarli, controbilanciarli e limitarli (il sistema giudiziario innanzitutto, ma anche la stampa) per espandere il loro potere e per consolidarlo nel tempo, marginalizzando le opposizioni e inquinando l’equità e la correttezza delle successive elezioni.

Consenso elettorale

Le strategie degli autocrati moderni tipicamente si basano sulla combinazione di due fattori principali: da un lato, la scelta di operare queste riforme tramite procedure formalmente legali e quindi meno scandalose o eclatanti (si parla infatti di “legalismo autocratico”); dall’altro, l’appoggio di solide maggioranze parlamentari che facilitano il lavoro. E qui arriviamo a un altro importante aspetto riguardante l’origine di questi regimi, ovvero la capacità dei loro leader di raccogliere massicci consensi elettorali e vincere (voti, e di conseguenza seggi in parlamento) con ampi margini sulle altre forze politiche.

Le ragioni del successo alle urne di questi leader sono molteplici – l’utilizzo di una retorica populista, la promessa di un cambiamento radicale, una leadership forte e risoluta, per esempio – ma, almeno al momento della loro salita al potere, includono un sostegno genuino da parte di larghe fasce dell’elettorato dei loro paesi. Spesso si tratta di cittadini non solo insoddisfatti dalla performance dei precedenti governi, ma anche disaffezionati alla democrazia stessa, o quantomeno agli aspetti più “scomodi” di essa, quali il rispetto delle visioni politiche diverse dalla propria, la tutela e promozione dei diritti di tutti (e non solo della maggioranza), il rallentamento delle procedure legislative a causa del vaglio parlamentare, i limiti al potere del capo di governo (pur essendo questi stato scelto dal popolo).

Segnali positivi

Dobbiamo rassegnarci a vivere in un mondo meno democratico di quanto fosse in precedenza? Fino a dove si spingerà nel tempo e nello spazio il riflusso autoritario in corso da ormai un decennio? Ci sono ragioni per mantenere un cauto ottimismo verso il futuro. La prima sta nel fatto che, con poche eccezioni, le democrazie più consolidate appaiono finora immuni o comunque dotate di anticorpi efficaci a contrastare il risorgimento dell’autoritarismo, che ha perlopiù interessato paesi le cui istituzioni democratiche erano già di per sé fragili o di recente instaurazione.

Questo trend ha trovato conferma anche durante la pandemia da Covid-19, quando si è paventato il rischio che alcuni governi abusassero del principale strumento giuridico a loro disposizione per fronteggiare la crisi, ovvero lo stato di emergenza, e dei maggiori poteri e minori controlli che esso concede. Anche in questo caso, i principali tentativi di abuso sono stati registrati nelle democrazie più fragili e nelle cosiddette nuove autocrazie, stando a una ricerca dell’istituto Varieties of Democracy.

Proprio la storia di alcune delle democrazie che oggi appaiono più stabili – si pensi a Germania, Spagna e Portogallo – offre un secondo motivo di conforto. La loro esperienza dimostra che il consolidamento della democrazia può rivelarsi un percorso lungo e costellato di rallentamenti, oscillazioni e inversioni di rotta. Quindi, ciò che oggi interpretiamo come la restaurazione dell’autoritarismo in alcune giovani democrazie potrebbe, in una prospettiva di più lungo periodo, rappresentare una fase intermedia di un percorso di democratizzazione.

In tal senso, anche la sopravvivenza delle elezioni come strumento attraverso cui la maggior parte degli autocrati moderni cercano di legittimare il loro potere rappresenta un buon segno. Al netto delle manipolazioni che tali leader cercheranno di mettere in atto, tali elezioni riapriranno periodicamente una finestra di opportunità per le forze democratiche dei loro paesi.

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