All’alba del 3 luglio le forze armate israeliane hanno lanciato una nuova offensiva sul campo profughi di Jenin, nella Cisgiordania settentrionale, per cercare di scardinare quello che si è affermato come il centro più attivo e sofisticato della militanza palestinese in West Bank.

Il ministero della Salute palestinese ha confermato 10 vittime e oltre 100 feriti, di cui 10 in condizioni gravi. Solo un ferito lieve dalla parte israeliana. Nella mattinata del 4 luglio un’auto si è lanciata contro la folla a Tel Aviv, causando almeno sei feriti, di cui una donna si trova in gravi condizioni. L’uomo è stato ucciso dalla polizia. Il portavoce di Hamas, Hazem Qassem, ha detto che si tratta della «prima risposta ai crimini dell’occupazione contro il nostro popolo a Jenin». «L’occupazione – ha aggiunto – pagherà il prezzo per i suoi crimini contro Jenin. Lodiamo gli eroi del nostro popolo e i combattenti a Jenin».

Il raid israeliano

L’azione militare del 3 luglio è iniziata con un raid aereo – un evento raro per le attività dell’esercito israeliano in West Bank – che avrebbe preso di mira, secondo le forze armate dello stato ebraico, un centro di coordinamento e comunicazione dei militanti palestinesi nella cittadina.
Il luogo «serviva come punto di osservazione, luogo di ritrovo per i terroristi armati prima e dopo gli atti di terrorismo, come deposito di munizioni e bombe e centro di comunicazione», secondo il comunicato. Tre i militanti palestinesi rimasti uccisi nell’appartamento.
Poi l’ingresso delle truppe di terra – più numerose rispetto allo standard delle incursioni nella regione – le quali, per scongiurare perdite nelle proprie file, hanno utilizzato metodi altamente distruttivi come quello di bonificare le strade con bulldozer corazzati allo scopo di far deflagrare eventuali ordigni esplosivi improvvisati.

Il precedente

Durante un precedente raid due settimane fa uno di questi ordigni era esploso colpendo un mezzo israeliano, provocando il ritorno in scena di mezzi aerei per la prima volta dall’epoca della seconda intifada per le operazioni di evacuazione.
Secondo la radio militare israeliana Gal Galaz i militanti del campo erano dotati di un sistema di telecamere con cui monitoravano gli ingressi verso la città. In questo modo erano in grado di allertare i propri uomini tempestivamente ogniqualvolta le truppe nemiche si avvicinavano per effettuare arresti o incursioni.
Negli ultimi 18 mesi, in cui la le forze palestinesi nel campo si sono organizzate in maniera sempre più efficace, “Tzahal” non poteva agire incontrando una resistenza scarsa, come avviene altrove in West Bank, ma solo mettendo in conto importanti scontri armati. Il comandante della divisione dell’esercito “Giudea e Samaria” – come gli israeliani chiamano rispettivamente la Cisgiordania meridionale e settentrionale – ha scritto infatti «ci imbarchiamo in questa operazione per cambiare la situazione attuale (presso il campo di Jenin)». E anche, ha scritto Avi Bluth, «per riappropriarci della libertà d’azione».

Sforzo mirato

In un comunicato in seguito a un vertice con i capi delle agenzie di sicurezza israeliane il ministro della Difesa Yoav Gallant ha parlato di un «maamaz memukad», letteralmente uno «sforzo mirato», presso il campo profughi di Jenin.
Una scelta lessicale con cui lascia intendere che l’attacco israeliano potrebbe comunque mantenersi entro i limiti della consuetudine, per quanto estrema, dello scontro presso la cittadina divenuta il centro pulsante del conflitto nella sua compagine cisgiordana. E non tramutarsi in una “mivzà” (“operazione”), il termine riservato a iniziative militari di larga scala e prolungate nel tempo a cui vengono assegnati nomi specifici (per esempio “Operazione pace in Galilea” in Libano nel 1982, “Operazione scudo di difesa” in West Bank nel 2002, o “Freccia e scudo” su Gaza lo scorso maggio), travalicando cioè l’ordinaria amministrazione dell’occupazione militare nella regione.
Il campo profughi di Jenin, quello dell’offensiva più feroce della seconda intifada nei primi anni Duemila, dell’assassinio senza colpevole dell’attore teatrale-attivista Juliano Mer-Khamis nel 2011, dell’esecuzione immotivata della giornalista Shireen Abu Akleh, inizialmente mistificata dai vertici politici israeliani (in primis dall’allora primo ministro Naftali Bennett) e infine di fatto riconosciuta da quelli militari, è insomma di nuovo nell’occhio del ciclone.
Secondo gli analisti israeliani l’azione militare è frutto di un compromesso fra il governo di estrema destra, che chiede a gran voce un’operazione su larga scala in West Bank, e i vertici dell’esercito favorevoli a un approccio più prudente e ponderato (da qui forse anche la riluttanza ad assegnare un nome all’incursione in corso).

La pressione è montata a causa delle 28 vittime israeliane di attacchi palestinesi dall’inizio dell’anno (nel frattempo il 2023 potrebbe diventare l’anno peggiore dall’epoca della seconda intifada per numero di vittime palestinesi, che sono già quasi 200). E in seguito a valutazioni da parte del servizio di intelligence Shin Bet secondo cui la qualità delle bombe prodotte nel campo sarebbe cresciuta. Da Jenin lunedì scorso sono poi partiti anche due razzi verso Israele, senza causare danni.

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