Kabul come Saigon. La travolgente avanzata dei Talebani in Afghanistan richiama alla mente quel disastro politico-militare. L’immagine dell’ultimo elicottero che si alza in volo dal tetto dell’ambasciata di americana preso d’assalto da una folla disperata di vietnamiti sintetizza meglio di tante analisi il fallimento della missione americana.

Gli Stati Uniti non erano riusciti a piegare la guerriglia e le truppe del generale Giap, e alla fine si erano seduti al tavolo con i nord-vietnamiti per concordare la fuoriuscita dal paese, confidando nella resistenza dei loro alleati sud-vietnamiti. Il presidente Donald Trump ha seguito lo stesso schema per riportare a casa le truppe americane: a Doha, nel febbraio 2020, ha siglato un accordo con i Talebani confidando in una pacifica transizione con il regime di Kabul. E Joe Biden sta dando esecuzione a quel piano.

Nonostante le promesse dei Talebani, siamo invece alla resa dei conti con esecuzioni di massa e il ritorno al regime oscurantista di un tempo nelle aree già conquistate. Il gigantesco investimento americano (circa 2000 miliardi di dollari) peraltro controbilanciato da un numero relativamente ridotto di caduti (appena 2.400 in 18 anni di guerra) non ha portato a nulla. La ruota della storia ritorna a prima del 2001. 

Un intervento inutile e dannoso, allora? Chi allora avanzava dubbi era tacciato né più né meno come un simpatizzante di Bin Laden. Perché la retorica dominante imponeva una visione salvifica della missione militare: solo una invasione delle forze occidentali avrebbe garantito non solo lo sradicamento del terrorismo (missione dolorosamente fallita, come l’Isis ci ha dimostrato)  ma anche l’adeguamento del paese alle prassi democratiche (altra illusione ).

A parte alcune élite delle grandi città, il resto degli afghani ha guardato con sospetto venato di ostilità la presenza di stranieri: come ha sempre fatto da quasi due secoli a questa parte con tutti gli invasori.

La fine della operazione Nato-Isaf, alla quale l’Italia ha assicurato un numero di militari cospicuo - con 52 caduti - obbliga a riflettere sul senso non solo dell’intervento in Afghanistan ma anche di quello in Iraq.

Questi due azioni militari che hanno impiegato uomini e risorse in abbondanza non hanno raggiunto i loro obiettivi dichiarati di portare la pace e la democrazia. 

Si si sono rivelate improvvide iniziative di apprendisti stregoni che hanno lasciato focolai di tensione accesi. E per venire a casa nostra non sarebbe ora di ricordare l’arroganza e la sicumera della destra berlusconiana al governo nel suo sostegno spassionato all’ invasione in Iraq, al di fuori di ogni norma e diritto?

Oggi che si ricorda un uomo come Gino Strada, in prima linea a portare umanità laddove veniva calpestata, sarebbe più che mai necessaria una discussione sulle responsabilità politiche di chi ha sostenuto una visione bellicista e aggressiva delle relazioni internazionali. Senza per questo pensare che il modo sia una arcadia. Tutt’altro. Ma ci sono modi diversi di essere presenti: i cannoni non sempre devono tuonare.

© Riproduzione riservata