Una delle armi utilizzate dall’amministrazione di Joe Biden nei confronti della Russia è stata quella dell’embargo commerciale e delle sanzioni per scoraggiare nuovi investimenti americani nel paese. Circa 600 aziende statunitensi hanno deciso spontaneamente di seguire con le parole di condanna i fatti abbandonando il paese e chiudendo le loro attività, altre hanno deciso di ridurre o cancellare gli investimenti, altre ancora, in numero sempre più esiguo, hanno deciso di tenere duro e restare nel paese eurasiatico. Tra queste spicca la presenza delle Koch Industries, la multinazionale del miliardario Charles Koch, noto per essere uno dei finanziatori dell’ala conservatrice e ultraliberista del partito repubblicano.

Un progetto di ricerca della School of Management dell’Università di Yale ha preso nota di questo e di altri spostamenti aziendali di tutte le aziende con sede negli Stati Uniti, nell’Unione europea o negli altri stati aderenti alle sanzioni contro Mosca.

Non è un progetto neutrale di analisi dei dati: i due docenti a capo del progetto, Jeffrey Sonnenfeld e Steven Tian, hanno dichiarato in un editoriale pubblicato il 7 aprile sul New York Times che «il loro obiettivo è assoluto: far cessare le attività delle aziende in Russia a seguito dell’invasione».

Gli studiosi citano un altro esempio del passato: quello del boicottaggio spontaneo del Sudafrica dell’apartheid, che spinse il governo di Pretoria a cedere alle pressioni internazionali.

Interruzioni e ambiguità

Sicuramente la stragrande maggioranza delle aziende statunitensi ha risposto positivamente all’appello della Casa Bianca: circa 253 a oggi hanno rotto ogni legame con la Russia, in particolar modo le aziende petrolifere come Exxon hanno rimosso ogni investimento negli asset russi, costrette dal divieto totale imposto dalla Casa Bianca.

Altre però, pur non obbligate, hanno rinunciato a profitti considerevoli, come nel caso della Stanley, Black & Decker, che produce prodotti per il bricolage e che nel 2021 ha fatto 150 milioni di ricavi nel paese e ha preferito rinunciarci. Altre 250 circa invece hanno momentaneamente sospeso le operazioni, ma continuano a pagare i loro dipendenti, come è il caso di Adidas, Nike, Ibm e Disney, per non perdere la posizione di mercato acquisita.

Altri, come la multinazionale alimentare Mondelez, hanno chiuso le attività “non essenziali”. In una nota diramata il 9 marzo scorso l’amministratore delegato Dirk Van De Put, ha condannato l’aggressione all’Ucraina come “ingiusta” senza però mai nominare l’aggressore, se non nel dire che si fermeranno gli investimenti pubblicitari in Russia.

I legami

Foto AP

Una situazione che il gruppo di ricerca di Yale ha definito “ambigua” e in un certo senso temporeggiatrice già dal tono che afferma “ci aggiusteremo secondo il bisogno”. Infine, c’è lo zoccolo duro di 26 aziende americane circa che non hanno alcuna intenzione di fare cessare le loro attività né tanto meno di ridurle.

Parliamo di una catena di hotel, la Aimbridge-Interstate Hotels, che ha aperto la divisione russa nel 2013 e gestisce una decina di strutture nel paese, al momento rimaste aperte nonostante il drastico calo di turismo dovuto al divieto per l’aviazione civile russa di sorvolare lo spazio aereo europeo e americano.

Altre aziende informatiche, come Msi, Cloudflare e Intermedia, restano senza fare annunci di sorta, così come società che hanno rapporti stretti con Rosneft o Lukoil, come nel caso di Flowserve, che fornisce pompe e valvole necessarie per il funzionamento degli impianti.

Soltanto le Koch Industries però, hanno rilasciato un comunicato che è anche una dichiarazione d’intenti filosofica. Il 22 marzo il Chief Operative Officer Dave Robertson ha scritto che «l’orribile e abominevole aggressione contro l’Ucraina è un affronto per l’umanità».

Lo statement continua con la descrizione del miglior sistema per il “benessere generale”: uno basato sul rispetto della dignità individuale, su un solido stato di diritto e la libertà di scambiarsi beni e servizi. Sembrerebbe un preambolo a un vasto piano di ritiro.

Invece no. «I principi contano, soprattutto quando sono sotto pressione». Dopo un paragrafo riguardante il sostegno ai dipendenti in Ucraina e alla necessità dell’aiuto umanitario, si arriva agli asset delle Koch Industries in Russia.

Non sono tantissimi: parliamo di due impianti che producono vetro, proprietà della società sussidiaria Guardian Industries, con seicento dipendenti, più quindici impiegati nel paese. Si tratta dunque di strutture non fondamentali per una compagnia che, secondo i dati di Forbes, nel 2020 registrava ricavi per 115 miliardi di dollari e 122mila dipendenti in tutto il mondo.

Come dicevamo però, in ballo ci sono i principi. Il rischio, continua Robertson, è che i due stabilimenti potrebbero venire nazionalizzati dal governo russo (un report del Wall Street Journal ha confermato la possibilità che questo avvenga e nel caso di McDonald’s è già avvenuto) e ciò nuocerebbe in primis ai loro dipendenti. Questo concetto è stato pesantemente criticato dall’editorialista del Washington Post Dana Milbank affermando che «è parte di un ragionamento logico assurdo».

In realtà, è perfettamente coerente con la filosofia propugnata da altre strutture sostenuti da Charles Koch in persona: Dan Caldwell, esperto di politica estera e vicepresidente di Stand Together, think tank libertario, ha affermato che «raramente le sanzioni raggiungono gli obiettivi preposti». Non solo, il 13 marzo su Twitter ha rilanciato chiedendo di rimanere neutrali in una guerra che «non è nell’interesse americano», come avrebbe fatto George Washington.

Realisti o isolazionisti?

George Soros (Foto AP)

Le critiche più puntute al coinvolgimento arrivano però da un’altra creatura di Charles Koch, il Quincy Institute for Responsible Statecraft, un’istituzione di ricerca lanciata nel 2019 con l’obiettivo di far concludere “le guerre infinite” americane. La cosa sorprendente è che il Quincy Institute, che prende il nome dal presidente John Quincy Adams e dalla sua citazione «l’America non va in giro per il mondo in cerca di mostri da combattere», non è stato fondato dal solo Koch.

L’altra metà dei finanziamenti arriva dalla Open Society di George Soros, spesso visto come nemico sulle questioni di politica interna americana come la tassazione progressiva o gli investimenti economici sul cambiamento climatico. Soros e Koch però condividono l’assunto che l’America debba restare fuori il più possibile dalle guerre.

Se i critici del Quincy lo definiscono “isolazionista”, loro preferiscono autodenominarsi come “realisti”. Per la precisione fanno riferimento alla teoria delle relazioni internazionali chiamata “realismo offensivo”, propugnata dal docente dell’università di Chicago John Mearsheimeir.

Per sintetizzare al massimo una teoria complessa, in pratica ogni potenza legittimamente cerca l’egemonia regionale, in virtù della quale può interferire negli affari interni della loro sfera d’influenza, come sarebbe nel caso della Russia in Ucraina. Quindi ovviamente l’occidente avrebbe delle colpe, avendo “illuso” l’Ucraina di poter un giorno entrare nella sfera d’influenza occidentale.

Questi concetti forse non sono integralmente condivisi da Charles Koch e George Soros, il quale ha denunciato in modo aperto il progetto egemonico della Russia putiniana e della Cina comunista in un commento pubblicato su MarketWatch il 12 marzo, ma di fatto non sono in contrasto con gli interessi delle Koch Industries.

E infatti Responsible Statecraft, pubblicazione legata al Quincy Institute, ha pubblicato il 13 aprile un articolo sulle spese militari eccessive come causa dell’aumento dei prezzi delle materie prime, che a loro volta mettono a rischio la catena dei rifornimenti, elogiando in proposito un intervento della senatrice Elizabeth Warren, normalmente un bersaglio di Koch e dei suoi sostenitori.

Quindi, in fin dei conti, il prosieguo del conflitto tra Russia e Ucraina mette a rischio il regolare andamento degli affari. Meglio limitare le perdite mantenendo anche due impianti di produzione in Russia.

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