«Vogliamo avere i paesi dei Balcani nell’orbita europea, questo significa essere credibili, seri, affidabili, fare investimenti. Vogliamo essere più presenti perché in politica quando si lasciano degli spazi, questi spazi vengono occupati da altri. Se noi siamo presenti politicamente, con le nostre imprese e anche con i nostri militari di pace non ci sono pericoli di occupazione di spazi da parte di altri. Non c’è solo la Russia, tanti sono interessati ai Balcani».

Sono queste le ragioni che rendono necessario il rilancio dell’impegno italiano nei Balcani, secondo il ministro degli Esteri Antonio Tajani.

Dallo scorso luglio, quando hanno ripreso vigore le spinte separatiste delle minoranze serbe nel nord del Kosovo ed è salita la tensione a seguito del provvedimento del governo di Pristina sulle targhe per la circolazione stradale, i Balcani occidentali sono tornati a suscitare l’interesse della politica internazionale, in qualità di potenziale scenario di confronto tra le grandi potenze.

La capacità dell’area di trasformarsi in una nuova polveriera d’Europa è stata confermata, dunque, dall’acuirsi degli scontri e delle proteste nella zona di Kosovka Mitrovica.

Qui la cosiddetta “guerra delle targhe” ha innescato nuovamente la rivalità tra Pristina e Belgrado. Quest’ultima, come Mosca, non ha mai riconosciuto l’indipendenza kosovara.

Questo focolaio, peraltro, rischia di divampare unendosi a quelli della Transnistria e dell’enclave russa di Kaliningrad, nell’ambito dell’assai più ampia partita che vede contrapposta la Federazione Russa alla Nato e i suoi partner e che ha come posta in gioco la revisione dello status quo in Europa. 

Sono stati diversi gli sforzi di risoluzione delle ostilità. Tra questi, l’incontro d’emergenza tra l’Alto rappresentante Ue per la politica estera, Josep Borrell, il presidente Aleksander Vučić ed il premier kosovaro Albin Kurti per scongiurare una nuova escalation.

Ma anche le visite – lo scorso novembre – a Belgrado e a Pristina dei ministri italiani della Difesa, Guido Crosetto, e degli Esteri, Tajani, per favorire urgentemente la ripresa del dialogo e poi inaugurare un percorso di cooperazione che dovrebbe proseguire nel medio-lungo termine, andando oltre la mera cooperazione in campo diplomatico tanto da abbracciare anche quelli industriale, militare e commerciale.

La linea italiana

In continuità con il governo Draghi, anche l’esecutivo guidato da Giorgia Meloni sta confermando il suo ancoraggio alla tradizione della politica estera italiana, che trova nel Mediterraneo “allargato” il suo naturale perimetro d’azione.

A differenza del passato, il governo ha scelto però di adottare una linea di maggior visibilità nella sua sponda settentrionale, i Balcani, come rimarcato dalla decisione del ministro degli Esteri di includere le relazioni con l’area balcanica nel suo portafoglio personale, senza delegare a viceministri o sottosegretari, e attribuendogli quindi un’alta priorità.

Se nell’area la presenza militare italiana è da lungo tempo consistente (con oltre 750 unità, Roma impiega il maggiore numero di uomini all’interno della missione internazionale Kfor), il nuovo attivismo italiano punta al potenziamento dell’interdipendenza economica tra le due sponde dell’Adriatico, anche in vista dell’attuazione di un parziale reshoring delle produzioni un tempo delocalizzate nella Repubblica popolare cinese.

È all’interno di questa cornice strategica che a gennaio la Farnesina ha organizzato a Trieste la conferenza “L’Italia nei Balcani occidentali: crescita e integrazione”, a cui hanno preso parte numerosi ambasciatori, le principali realtà associative del mondo produttivo italiano interessate alla regione balcanica e le Istituzioni chiamate ad accompagnare i nostri player economici sui mercati esteri. Tra gli obiettivi principali, quello di far crescere stabilità e sicurezza ai nostri confini anche attraverso lo strumento economico.

Un meeting che non a caso si è tenuto a Trieste – città simbolo dell’antica questione adriatica – e alla presenza del Commissario europeo per il Vicinato e l’Allargamento, Oliver Varhelyi, a confermare l’investitura europea alle politiche che l’Italia svilupperà in tal senso.

Nel corso dell’evento è emersa la necessità di accelerare il processo di integrazione europea dei paesi balcanici, sottolineata più volte dalla presidente del Consiglio Meloni in videocollegamento, affinché questi non siano risucchiati nell’orbita delle potenze “revisioniste”.

Non si dimentichi, infatti, che Mosca nell’ottobre del 2019 ha organizzato con la Serbia l’esercitazione militare congiunta Slavic Shiel, inviando il suo sistema missilistico S-400 con un raggio d’azione “preoccupante” per i paesi vicini, e che i paesi dell’area sono oggetto di penetrazione economica da parte della Repubblica popolare cinese. 

Gli investimenti italiani nella regione, inoltre, potrebbero produrre anche effetti virtuosi sulla questione dei flussi migratori, che qui trovano un altro corridoio d’accesso verso l’Ue.

Processo di integrazione

Ad intervenire durante il summit triestino sono stati, inoltre, i direttori generali e gli amministratori delegati di alcune società italiane, come la Sace, controllata del ministero dell’Economia e leader nel settore assicurativo-finanziario, che hanno riflettuto su come individuare gli strumenti appropriati e le opportunità per l’internazionalizzazione delle imprese confermando l’esistenza di ampi margini di sviluppo per l’export italiano.

Secondo fonti della Farnesina, in fondo a questi sforzi c’è l’idea di un Italia che si faccia portavoce dei Balcani occidentali a Bruxelles e garante della prosecuzione del processo di integrazione europea per i territori che ne sono ancora al di fuori.

Un traguardo raggiungibile rimarginando in primis le ferite del passato, contribuendo alla stabilizzazione e alla normalizzazione della situazione balcanica e inaugurando una stagione di relazioni prospere, sotto diversi punti di vista, con il vicinato.

Un percorso che non sempre è stato visto di buon occhio da alcuni alleati come la Francia, per la quale le adesioni dei paesi balcanici vanno soppesate con estrema cautela al fine di evitare l’ingresso di realtà governate da personaggi e forze illiberali, come accaduto per l’Ungheria di Orbán.

Sulla situazione conflittuale fra Serbia e Kosovo, Tajani ha spiegato chiaramente come l’Italia sia tornata a pieno titolo a partecipare all’azione del cosiddetto Quintetto, insieme a Regno Unito, Germania, Francia e Usa, per indurre le parti a risolvere definitivamente una disputa che, anche considerato il contesto internazionale, potrebbe portare a ben più gravi conseguenze.

Parigi e Berlino hanno proposto una bozza di accordo che costituirebbe un passo in avanti verso la normalizzazione dei rapporti tra Belgrado e Pristina: inviolabilità dei confini e rispetto reciproco dell’integrità territoriale e delle minoranze nazionali, responsabilità per il mantenimento della pace, più un elenco di dieci punti tra i quali spiccano quelli relativi all’impegno nello sviluppo dei rapporti di buon vicinato, l’impegno a risolvere le controversie bilaterali attraverso strumenti pacifici, la prosecuzione di un dialogo sotto l’egida dell’Unione europea fino alla conclusione di un accordo definitivo.

Lo scorso 27 febbraio si sono poi incontrati, nel corso di un vertice di alto livello tenutosi a Bruxelles, Vučić e Kurti che hanno espresso il proprio sostegno in linea di principio alla proposta franco-tedesca, fatta propria dall’Unione europea.

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Il percorso avviato dall’Italia mostra che la prevenzione della destabilizzazione dei paesi dell’area balcanica è una priorità per il governo. Il cammino però non può non tenere in considerazione le aspirazioni e le scelte degli attori balcanici coinvolti, in testa la Serbia.

Infatti, proprio negli ultimi giorni è tornato a parlare il presidente Vučić: «Finché sarò presidente, non firmerò né accetterò il riconoscimento formale o informale del Kosovo o l’adesione di questo alle Nazioni Unite».

Parole che suonano come una sfida alla proposta europea di normalizzazione della controversia tra Serbia e Kosovo, che prevede l’impossibilità di opporsi all’adesione kosovara ad alcuna organizzazione internazionale e verso la quale, inizialmente, lo stesso si era mostrato disponibile.

Una posizione, quella del leader serbo, contraria alle linee suggerite dall’Ue e che conferma una Serbia in bilico tra il mantenere vivo il rapporto di antica fratellanza con la Russia e l’accogliere le richieste della Comunità europea e della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che sottolineano la necessità sempre più impellente della Repubblica serba di prendere una decisione.

Una nuova questione balcanica da seguire con attenzione e alla quale solo tempo, competenze e politiche accorte potranno dare una risposta circa il suo destino.

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