Il presidente Joe Biden sembra avercela fatta. Una “non vittoria” che sa di successo, molto più di quanto non accadde al povero Bersani nel 2013.

Si è trattato cioè del migliore risultato di un presidente in carica in una elezione di metà mandato dal 2002, quando George W. Bush vinse sull’onda della grande mobilitazione nazionale del dopo 11 settembre. Le elezioni di metà mandato di solito sono un referendum sul presidente in carica: questa volta sono state anche un referendum su di un ex presidente, ovvero Donald Trump. Trump è stato il convitato di pietra di questo appuntamento elettorale: se da un lato Biden veniva accusato di essere il colpevole dell’aumento dell’inflazione e del tasso di criminalità, dall’altro Donald Trump e il trumpismo erano accusati di essere scesi di nuovo in campo per aprire la strada a un nuovo assalto alla democrazia.

Biden aveva parlato espressamente di «semi-fascism». Gli elettori repubblicani sono stati chiamati a mobilitarsi contro il presidente in carica: lo hanno fatto disciplinatamente, come in ogni elezione di metà mandato che si rispetti. Ma questa volta si sono contromobilitati anche gli elettori filopresidenziali, quanto basta da far capire ai repubblicani che la battaglia delle presidenziali 2024 sarà molto dura. Non era scontato, e lo hanno fatto per allontanare lo spettro di Trump: il che porta a tre considerazioni, una che riguarda i repubblicani e due che riguardano Biden e i democratici.

Tre scenari

La prima. Per i repubblicani si apre una fase di conflitto cruenta. Sappiamo che anche i negoziatori più spietati sono capaci di trovare un accordo, usando il ricatto e i colpi bassi, se necessario. Ma abbiamo già visto Trump attaccare il governatore della Florida Ron DeSantis il giorno prima del voto. Sapeva che avrebbe vinto bene nel suo Stato, sapeva che si trattava del suo futuro nemico interno e ha anche delle ragioni per essere arrabbiato: la strategia cinica del repubblicani è quella di essere dei trumpiani senza Trump, usandone cioé l’estremismo e le parole d’ordine, ma scaricando Trump.

Liberandosi cioè dei trumpisti più impresentabili e del loro imprevedibile capo, ma mantenendo il consenso che egli aveva generato, puntando ancora sul mood trumpiano. Questo è Ron DeSantis. Speriamo per lui che sappia trovare parole e mezzi per rabbonire Trump, con le buone o con le cattive: altrimenti le loro primarie presidenziali si trasformeranno in un bagno di sangue.

Secondo considerazione. Biden ora si troverà a svolgere il copione del presidente che vive in regime di “governo diviso” (Congresso di un partito e Presidente di un altro). Elon Musk ha sostenuto sia un bene, perché questa condizione favorisce la moderazione di tutti. Era vero 50 anni fa, quando la polarizzazione politica non paralizzava il paese. Per far funzionare un governo diviso servono partiti che vogliono trovare un accordo, e non è la realtà attuale.

Per Biden è una “win-win situation”, se sfruttata a dovere: se il Gop trovasse un accordo su alcune iniziative presidenziali sarebbe una sua vittoria, se invece lo attaccasse a testa bassa – per esempio chiedendo una commissione d’inchiesta sulle attività di suo figlio in Ucraina – potrebbe di nuovo chiamare alle armi i suoi contro l’estremismo repubblicano. Una strategia che funziona dal 2018, cioè da quando Trump perse le sue elezioni di metà mandato. La trincea di Biden è ben fortificata, sebbene nel quadro di un sistema sempre più disfunzionale.

Terza e ultima considerazione. I democratici non hanno un candidato per il 2024. Non è la prima volta, sia chiaro (nel 2020 in quanti credevano davvero in Joe Biden?). Però è difficile pensare a una ricandidatura del presidente a 82 anni (ma forse Biden è qui per smentirci, chissà). Nessuno punta più sulla Vicepresidente Kamala Harris. I democratici sono un partito composito e confusionario, che nel 2020 ha scelto l’usato sicuro perché non pareva ancora pronta una candidatura della “nuova America”. La nuova America delle donne, dei giovani e delle minoranze che con Biden si è alleata con la vecchia base democratica del nord-est.

I democratici, questa volta, saranno capaci di far emergere il vero – o la vera – erede di Barack Obama?

 

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