Internet, coi social e tutto quel che segue, sono ormai il cuore degli equilibri di sistema. Questo è, innanzitutto, quello che capiamo apprendendo che fin da marzo il governo della Cina ha preso a ridimensionare il futuro delle proprie Big Tech, non meno grandi strapotenti di quelle americane e accusate di farsi obese, flaccide e stagnanti, viziate dai loro monopoli, voraci di risorse professionali e capitali fino a farli mancare a tante altre attività assai più utili e strategiche.

Simili i Big Tech, simili i problemi, c’è da giurarci, in Usa e occidente, anche se da queste parti ci si trastulla con l’indignazione attorno alle fake news, agli odiatori, all’abuso del potere di mercato, all’elusione delle tasse, allo sfruttamento del lavoro, all’inquinamento delle teste degli utenti autoreclusi nel business model social.

La tirata d’orecchi

La notizia di partenza è che, dalla sera alla mattina, Jack Ma, il Bezos della Cina, è stato bloccato mentre s’avviava a rastrellare torme di investitori american già in fila a Wall Street per godere del colossale mercato della Cina. A seguire, leggiamo su The Economist, Didi Global (prenotazione di trasporti come Uber) è stata espulsa dagli app store cinesi non appena ha tentato, anch’essa, di strafare entrando nel listino americano; Tencent, distributore di intrattenimento, ha subito multe colossali motivate con pretesti d’occasione riguardanti la decenza, la pratica di accordi capestro e altri abusi alle regole di un candido mercato; a Meituan, boss della distribuzione di pasti, è arrivata una multa di un miliardo di dollari; NetEase, streaming musicale, ha rinunciato alla Borsa di Hong Kong perché, dopo gli esempi di cui sopra, gli investitori temono una più puntuta applicazione delle regole vigenti.

Nel giro di poche settimane il settore ha perduto un trilione, cioè mille miliardi di dollari, di capitalizzazione. Sfumati per il sospetto che dopo la “deregolazione”, parallela a quella Usa, arrivino regole contrarie al proseguimento dello sviluppo esplosivo del settore.

The Economist, tempio del pensiero liberale, racconta la faccenda con sguardo attento e un po’ sornione partendo dai motivi “alti”: realizzare, in capo a dieci anni, una sorta di “techno utopia” cinese, zeppa di cloud computing, intelligenza artificiale e auto che si guidano da sole; basata su ultra chip fatti in casa (a questo servono gli ingegneri dilapidati negli algoritmi delle piattaforme); ricca di imprese medie e di start up di nuove applicazioni; senza città inchiodate a destini minori perché l’ecosistema dell’informatica distribuita (il che spiega la sollecitudine di Pechino quanto a 5G) permetterà di distribuire l’internet delle cose e la relativa potenza tecnologica di calcolo; irrorata dai “dati”, promossi ufficialmente a “risorsa produttiva”, come la terra e il lavoro, a disposizione di chiunque e non soltanto del social che li aggrega. Infine e non da ultimo, invulnerabile agli umori e alle sanzioni di chi sta alla Casa Bianca.

Dollari al vento o un’aria nuova?

Finito di dipingere questo invidiabile futuro The Economist ricorda che le legnate ad Ali Baba e compagnia hanno determinato in poche settimane la perdita di un trilione di dollari, con torme di azionisti potenziali volte altrove e gli esistenti presi dall’ansia e dal terrore di perdere il peculio. In sostanza, il giornale liberale, pur senza calcare i toni, espone dati tali che il lettore si domanda se il Partito comunista, per stroncare un potere economico ormai rivale e per non offrire spazi agli Usa, sia pronto a stroncare l’intera economia.

Incombe, per chi si ricorda un po’ di storia, il fantasma della Nuova politica economica varata da Lenin nel 1921 per venire fuori dall’economia di guerra dando spazio all’opera lucrosa di commercianti, industriali e contadini proprietari. Ma nel 1928 revocata da Stalin a favore d’altri fini (l’industria pesante e militare) incentivati dalle minacce circostanti, ma all’origine del modello statocentrico sfociato nella catastrofe economica e nella fine, disse Fukuyama nel 1989, della storia. Siamo alla replica di quella tragedia conosciuta, oppure la Cina attuale è talmente diversa dall’Urss degli anni Venti, da riavviare il rapporto fra economia e politica, smentendo la Scuola liberista di Chicago che da mezzo secolo sbeffeggia qualsiasi politica che pretenda di modellare, anzi che soltanto cavalcare, lo sviluppo?

Capitalismi diversi, alla prova

Di certo sta accadendo che i due capitalismi del momento, quello liberale Usa-anglosassone e quello politico di Pechino, di fronte ai medesimi e ineludibili problemi (l’ambiente e le conseguenze decostruttive di tecnologia, organizzazione e finanza) mettono più in evidenza le loro differenze.

Il capitalismo occidentale compie poco più di due secoli e mezzo, e dunque è coetaneo dell’indipendenza Usa e della rivoluzione industriale in Inghilterra. Dunque è frutto nativo della sfera anglosassone e coincide, non a caso, col sogno americano: l’individuo laborioso, in particolare l’immigrato, che disegna il suo destino libero dal gravame del passato e garantito dalla forza della legge, dopo l’età della pistola, nel suo spazio di libertà espressiva ed economica.

Il capitalismo della Cina è invece “aggiuntivo” in una storia ininterrotta di venticinque e passa secoli narrati in trattati e romanzi che dicono della morale, della tecnica, dell’arte militare. Mentre in occidente il capitalismo ha lacerato i rapporti sociali e produttivi preesistenti, in Cina questa azione è avvenuta per via politica, sotto specie di rivoluzione al profumo di marxismo. Per questo il capitalismo del Dragone, pur identico quanto ai mezzi a quello occidentale, non fonda la visione della politica, ma ne è fondato e ne subisce la disciplina.

Se questo è vero, e l’episodio della enorme tirata d’orecchie alla social economy pare suggerirlo, è pronta la soffitta per la speranza che la ricchezza, sbloccata in Cina negli anni Settanta con le aperture di Nixon e le riforme di Deng Xiaoping, finisca col mangiarsi la politica cinese riplasmando corpo e testa del paese in stile Usa. A Washington qualcuno (Dexter Roberts) già evoca la «politica al comando» del vecchio Mao; altri dicono che quel capitalismo, da “politico” che era, diviene veramente “di stato” e, come quello sovietico (e a Pechino fanno gli scongiuri) scamperà forse all’anarchia capitalistica, ma non alla perversità del potere burocratico.

Nei fatti è ripartito, fra le due sponde del Pacifico, l’ennesimo derby della storia fra chi riesce meglio a sbrogliare i nodi dell’equilibrio di potenza e dello sviluppo senza fine.

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