Antony Blinken sbarca oggi finalmente a Pechino, in un momento in cui le relazioni tra la potenza egemone e quella in ascesa, che Joe Biden ha definito «la sfida geopolitica più importante dell’America», non sono mai state così tossiche dal massacro di piazza Tiananmen del 4 giugno 1989.

La missione dell’inviato del presidente Usa – la prima di un Segretario di stato in Cina negli ultimi cinque anni – era stata cancellata in seguito all’abbattimento a largo della South Carolina del “pallone-spia” cinese, un incidente spiattellato da Washington come una minaccia planetaria alla vigilia del viaggio di Blinken programmato per il 5-6 febbraio scorso.

Prima della visita odierna sono rimbalzate “rivelazioni” mediatiche che hanno suscitato paure da nuova Guerra fredda: discussioni tra Pechino e L’Avana per l’installazione di una base di spionaggio cinese a Cuba e piani d’evacuazione dei cittadini Usa in vista di un attacco a Taiwan. Eppure questa volta l’incontro tra Blinken e i leader cinesi s’ha da fare.

Per il coordinatore della sezione Indo-Pacifico del Consiglio per la sicurezza nazionale, Kurt Campbell, si tratta di «assicurarsi che abbiamo canali di comunicazione aperti. I cinesi parlano di “fermare la spirale discendente nella relazione”, e anche noi abbiamo fatto presente il nostro interesse nel ridurre il rischio di errori di valutazione».

Sia Pechino che Washington intendono smorzare un’animosità che, tra sanzioni e rappresaglie, war game contrapposti nel Pacifico e continui scambi di accuse, nelle ultime settimane ha rischiato di provocare un paio di collisioni tra navi e aerei da guerra cinesi e statunitensi nel Pacifico.

Tra oggi e domani, quando si concluderà la sua trasferta, Blinken vedrà anche Xi Jinping? Sarebbe un segnale chiaro da parte cinese della volontà di abbassare la tensione. Intanto, mercoledì scorso, Blinken è stato catechizzato con una telefonata dal suo omologo Qin Gang. Il ministro degli Esteri di Pechino ha invitato gli Usa a «mostrare rispetto, smettere di interferire negli affari interni della Cina e di minarne la sovranità, la sicurezza e gli interessi di sviluppo in nome della competizione».

Il nodo Taiwan

La mina più difficile da disinnescare è Taiwan. Xi, che ha messo la «riunificazione» dell’isola alla madrepatria al centro della sua ideologia del «grandioso risveglio della nazione cinese», non è in grado di far digerire all’esercito e ai settori più nazionalisti del partito e della società il boom del sostegno militare di Washington a Taipei (forniture continue, per centinaia di milioni di dollari, anche autorizzate direttamente dalla Casa bianca, come quelle per l’Ucraina) e gli incontri della presidente taiwanese Tasi Ing-wen con gli speaker della Camera Nancy Pelosi (il 2 agosto 2022) e Kevin McCarthy (lo scorso 5 aprile) che hanno terremotato la politica «una sola Cina» e l’«ambiguità strategica» seguite da Washington dal 1979, da quando riconobbero la Repubblica popolare cinese.

Poi c’è l’Ucraina (ovvero la quasi-alleanza tra Pechino e Mosca), sulla quale il mese scorso si sono confrontati a Vienna il consigliere per la sicurezza nazionale Usa, Jake Sullivan, e il responsabile della politica estera del partito comunista cinese, Wang Yi.

Secondo Qin, ora è necessario «gestire in maniera efficace le differenze, promuovere gli scambi e la cooperazione, e la stabilizzazione delle relazioni Cina-Usa». I cinesi sono interessati a smorzare la tensione, rilanciando i colloqui tra i vertici dei due governi, anche in vista di un appuntamento al quale attribuiscono grande importanza e a cui sia Xi che Biden vogliono presenziare, il trentesimo summit dei leader della Asia-Pacific Economic Cooperation (Apec) che si svolgerà a novembre a San Francisco.

D’altra parte pure Biden ha bisogno, senza apparire tenero nei confronti di Pechino, di fissare i cosiddetti “guardrail”, che hanno la funzione di evitare scontri in vista del 2024, l’anno delle presidenziali del 5 novembre, durante il quale ogni passo falso sulla Cina si trasformerebbe in munizioni per lo sfidante repubblicano.

Intanto il leader democratico, che nella precedente campagna elettorale ha definito Xi un «criminale», che nella nuova Strategia di sicurezza nazionale ha descritto la Cina come il principale avversario, e che ha voluto il “CHIPS and Science Act” per frenarne le ambizioni tecnologiche, se i “guardrail” non verranno ben piantati, potrebbe passare alla storia come il primo presidente Usa a non aver visitato la Cina dal riconoscimento reciproco nel 1979.

Un nuovo Kissinger?

E mettere paletti condivisi non sarà facile. Secondo l’ex colonnello Zhou Bo, analista del Centre for International Security and Strategy dell’Università Tsinghua, «dato il clima attuale, in cui gli Stati Uniti sfidano deliberatamente la Cina, ci saranno limiti alla buona volontà che entrambi i paesi possono mostrare e ci sarà poco spazio per il compromesso».

Qualche giorno fa in un discorso pubblico l’ambasciatore cinese a Washington, Xie Feng, ha ricordato, come incarnazione della «coesistenza pacifica» Usa-Cina, Henry Kissinger, che pochi mesi dopo la repressione di Tiananmen (seguito dall’ex presidente Richard Nixon, entrambi su mandato non ufficiale del presidente George H. W. Bush) riuscì a riaprire il dialogo con Deng Xiaoping, il leader che aveva ordinato di aprire il fuoco sugli studenti che portarono nel cuore politico di Pechino una replica della Statua della libertà.

Oggi però il centenario ex Segretario di stato non ha più alcuna influenza sull’amministrazione Biden, e negli Stati Uniti, non a caso, non c’è un’altra figura paragonabile a Kissinger. Il fatto è che gli interessi strategici dei due paesi ormai divergono. Negli ultimi decenni avevano avuto lo stesso nemico, l’Urss, e avevano entrambi cavalcato la globalizzazione neoliberista.

Ora però la Cina di Xi scommette sul suo partito-stato, fa concorrenza agli Usa sui mercati internazionali, ed è guidata dal presidente più nazionalista che il paese abbia avuto.

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