Le dichiarazioni del segretario di Stato americano Anthony Blinken alla fine del suo ennesimo tour israeliano sembrano quelle di un qualunque ministro scandinavo: corrette ma senza esiti, una lista di buoni propositi assieme a vaghi e generici auspici.

Comunque la si pensi, non c’è da esserne compiaciuti. Le sue ripetute e numerose visite senza risultati non possono essere intrepretate soltanto nel quadro delle elezioni Usa di novembre.

Gli effetti si propagano ben oltre la corsa della Casa Bianca. Si dice che il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu continua a resistere alle pressioni dell’amministrazione democratica di Joe Biden in attesa del voto Usa (e cioè del ritorno -previsto da molti- di Donald Trump).

Dall’altro lato le insistenze di Blinken sarebbero legate alla medesima vicenda: i democratici non possono sostenere altri mesi di combattimenti a Gaza senza perdere il sostegno degli elettori arabo-americani, afro-americani o delle altre minoranze, oltre che dividere ancor più la collettività ebraica statunitense.

È tutto vero ma non è solo questa la posta in gioco. Se gli Usa non riescono ad incidere in Medio Oriente, tutte le potenze (piccole, medie o grandi) coinvolte si riposizionano rapidamente con conseguenze durature anche su una ipotetica America di Trump 2.

Quasi niente è legato alla (pur diversissima) personalità dei due candidati e alle differenze programmatiche tra i repubblicani e democratici.

Molto di più è connesso alla perdita di influenza americana e occidentale che provoca già da tempo scosse geopolitiche. Innanzi tutto i primi effetti saranno su Israele stessa il cui isolamento è ormai patente. t

Nel fuoco della guerra e delle passioni non se ne vedono gli immediati effetti che invece ci saranno e metteranno lo stato ebraico in serio pericolo a medio termine. Si osserva una progressiva perdita di empatia del pubblico americano per il futuro di Gerusalemme: nulla sarà più garantito come lo è stato fino ad ora. In secondo luogo avverrà un definitivo allontanamento dei paesi arabi del Golfo dalle loro posizioni attuali, moderate e filo-occidentali, che provocheranno cambi di linea se non di dinastie.

Gli stati arabi del vecchio fronte del rifiuto già si sono riposizionati su una linea più aggressiva che sarà l’Europa a pagare, come potrebbe accadere con l’Algeria e la Libia.

Dal canto suo, l’Iran vede confermata la sua politica aggressiva a tutto campo e non sarà indotto ad un nuovo accordo sul nucleare. Si potranno avere cambiamenti in Iraq e Siria dove gli americani che restano (pochi in verità) potrebbero essere spinti verso l’uscita, con potenziali effetti negativi sui curdi (rimasti ormai soli) e sui cristiani d’oriente (il cui destino è appeso a un filo).

In Libano Hezbollah aumenterà influenza e potere. Anche la Turchia si vedrà confortata nella sua politica di autonomia dall’occidente pur rimanendo nella Nato: una posizione opportunista ma con grandi possibilità, come si vede nel Caucaso e si vedrà in Asia centrale.

La Russia non sarà spinta a trovare un accordo che salvi la faccia di tutti in Ucraina: meglio attendere momenti più favorevoli che sembrano essere dietro l’angolo (anche quando non ci sono).

Se Trump vincesse le elezioni non sarebbe così semplice ottenere un accordo con Mosca se non al prezzo dell’umiliazione degli alleati, ucraini in testa. Anche questo avrebbe conseguenze negative: non ci si fiderà più degli americani nemmeno in Europa che si troverebbe da sola in prima linea.

Già la Germania riflette su un’alleanza atlantica militare senza Stati Uniti: il che significa a breve che saremo costretti a spendere molti denari per la nostra difesa, togliendoli al welfare con immaginabili conseguenze a catena.

L’impulso verso tale modello è dato dalla Gran Bretagna che sta tagliando le spese sociali per mantenere quelle militari, che le garantiscono – a suo parere – un ruolo globale (vedi Mar Rosso). Londra fuori dalla Ue non è dannosa solo per sé ma continua ad avere ripercussioni anche sul resto della Ue.

Ecco perché l’Europa e l’occidente hanno bisogno della pace: non si tratta di una scelta buonista o imbelle ma di un interesse strategico. Solo con la pace possiamo restaurare la nostra influenze e garantirci il futuro.

È il terreno della politica che ci favorisce e non quello della guerra, non fosse che per l’impatto che ha la nostra opinione pubblica sulla conduzione degli affari governativi. Negli altri paesi essa conta molto meno, soprattutto in tempi identitari e di passioni nazionalistiche diffuse. Un corrispettivo nazionalismo euro-occidentale non avrebbe la medesima potenza di mobilitazione: siamo troppo abituati (nel bene e nel male) al confort della nostra vita e ai processi delle nostre democrazie per credere a lungo ad un tipo di sacrificio legato al passato.

Gli ucraini ci stanno dando un onorevole e eroico esempio ma anche loro sono stanchi e vogliono tornare alla normalità. Abbiamo appreso (a nostre spese per le guerre che facemmo) che il fuoco delle passioni si spegne sempre alla fine, lasciando solo cenere. Anche la vittoria (se c’è) ha un gusto amaro mentre la democrazia ci ha insegnato che vivere in pace non è opportunismo ma bene comune. 

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