Al lettore italiano forse suona strano il clamore che accompagna le notizie inglesi di questi giorni. Le crisi di governo e i cambi di premiership, da noi, son cosa frequente, e ormai siamo anche abituati a premier che non siano né leader né membri di alcun partito.

Ma nel Regno Unito le cose son diverse. Anzitutto, leader del partito di maggioranza e capo del governo coincidono. La corona, infatti, non fa altro che conferire l’incarico di formare il governo di sua maestà al leader del partito che ha la maggioranza in parlamento.

La coincidenza tra leadership e premiership sta al cuore di quello che un costituzionalista dell’Ottocento chiamava «il segreto efficiente della Costituzione inglese»: la fusione tra potere legislativo ed esecutivo. Che il capo dell’esecutivo sia il leader del partito di maggioranza parlamentare garantisce quell’allineamento di parlamento e governo che è il principale fattore di stabilità del sistema.

Si capisce bene, dunque, come mai sia evento piuttosto eccezionale che cambi il premier nel corso della legislatura, senza nuove elezioni.

E, per le ragioni viste, questo è quanto inevitabilmente accade quando a cambiare è la leadership del partito di governo: la corona non potrà che registrare, nominando primo ministro il nuovo leader del partito di maggioranza.

Il cambio degli anni Novanta

Evento eccezionale, in realtà, solo fino agli anni Novanta. Nel 1990, Michael Heseltine ha provato a strappare la leadership del partito conservatore a Margaret Thatcher. Non ci è riuscito al primo voto interno al partito, ma le regole del gioco gli hanno dato una seconda possibilità. Thatcher si è dimessa prima, arrendendosi all’evidenza di aver perso il sostegno del suo partito.

Heseltine non ce l’ha fatta neanche al secondo turno, e nuovo leader è diventato John Major, che ha ricevuto l’incarico di formare l’ultimo governo conservatore prima della lunga parentesi laburista. Anche lui nel 1995 è stato contestato da una minoranza interna al partito, ma riconfermato dal voto interno, è rimasto in piedi, pur con molte difficoltà.

Da lì in avanti, quello che fino al 1990 era un caso di scuola si è registrato con sempre maggior frequenza, come in una tragica spirale che alza il velo sul deterioramento del sistema politico inglese.

Prima c’è stato Tony Blair. Con lui i laburisti hanno stravinto tre elezioni consecutive, ma nel 2007, dopo una serie di dimissioni di protesta di influenti membri del governo, anche lui è stato costretto a dare le dimissioni da leader e premier, passando il testimone a Gordon Brown, che ha traghettato i laburisti alla sconfitta elettorale del 2010.

Alle dimissioni di David Cameron nel 2016, non per tensioni all’intero del partito ma per l’onda d’urto di Brexit, è seguita la scelta di Theresa May come segretario di partito, e il conseguente incarico della regina. Ma anche il secondo primo ministro donna della storia inglese si è dimessa in anticipo, nel 2019, dopo la schiacciante sconfitta dei conservatori alle europee.

Il resto è storia recente. Eletto nuovo leader dei conservatori, Boris Johnson è diventato ipso facto premier. Poi il voto interno di qualche settimana fa, al quale è sopravvissuto col 58 per cento dei voti a favore. Infine l’assedio, le dimissioni a cascata di membri del suo governo, e la resa finale. Anche lui vittima del proprio partito, come la Lady di ferro e Blair.

Chi verrà eletto leader conservatore dopo di lui e riceverà l’incarico a guidare il nuovo governo dovrà ancora stare attento alla “maledizione” di Margaret Thatcher – che qui è una licenza narrativa, ma forse nessuno si stupirebbe se una maledizione davvero esistesse. Siamo pur sempre in Inghilterra.

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