2021 fuga dal socialismo: è il destino parallelo di Venezuela e Cuba. Non lo ammettono i due regimi, accomunati dalla catastrofe economica, ma nei fatti è arrivata l'ora della capitolazione: fine delle ideologie con iniezioni di libero mercato e come grande salvagente il dollaro, il demonio di un tempo, la peggior rappresentazione del nemico yanqui. In Venezuela è decretata la morte del bolivar, moneta distrutta dall'iperinflazione, e la dollarizzazione di fatto dell'economia viene accompagnata da altre misure di apertura. A Cuba, dal primo gennaio, è stata abolita una delle due monete ufficiali, il peso convertibile, dando inizio a un cambiamento di tutta la dinamica di formazione dei prezzi che forse è il passo più audace verso l'uscita dall'economia pianificata da quando è iniziato il (lentissimo) processo di riforme postcastrista.

L’inizio della fine

Più che risveglio dal letargo ideologico è necessità. Le stime di contrazione nel 2020 sono di meno 15 per cento in Venezuela e di meno 11 per cento sull'isola caraibica. Covid-19 è più un pretesto che un motivo, perché a onor del vero i due paesi se la sono cavata bene sul fronte sanitario, grazie al loro isolamento e alla presenza di regimi autoritari dove le misure restrittive sono più semplici da implementare. La disfatta a due cifre è per entrambi la conseguenza di distorsioni che vengono da lontano: per il Venezuela il crollo delle entrate petrolifere e la distruzione sistematica dell'economia di mercato, per Cuba il quasi azzeramento degli aiuti che da 15 anni arrivavano proprio da Caracas, in nome di quel patto tra hermanos stipulato all'inizio del secolo tra Fidel Castro e Hugo Chávez. Oggi che entrambi i comandantes sono morti, da lassù –  o laggiù a secondo dei punti di vista – guarderanno sconcertati le decisioni che i loro eredi sono costretti a prendere. E con loro, i molti adepti nel mondo che avevano puntato tutto sull'ultima vampata di socialismo reale al sole dei Caraibi.

Economia bellica

«Siamo in una economia di guerra» ha detto pochi giorni fa Nicolás Maduro all'amico giornalista Ignacio Ramonet di Monde Diplomatique. «Nel 2013 entravano 56 miliardi di dollari di rendita petrolifera, nel 2020 meno di 500 milioni». Maduro dà la colpa ai prezzi del greggio e ovviamente alle sanzioni decise dagli Stati Uniti dopo le elezioni farsa del 2018. Vero è che oggi il petrolio venezuelano ha perso il suo miglior cliente. Ma Maduro sorvola sui numeri che contano: il pil del suo paese oggi è un quinto di quello che era quando lui è arrivato al potere, quindi il grosso della contrazione non c'entra con la stretta voluta da Trump; inoltre il Venezuela produce sui 300mila barili di petrolio al giorno, contro una media di 2,5 milioni negli anni di Chàvez, e ciò in gran parte a causa della distruzione del monopolista Pdvsa, lasciato senza investimenti. Per completare i dati della tragedia, si stima che oggi in Venezuela oltre il 90 per cento della popolazione viva in povertà, mentre 5 milioni di persone sono scappate all'estero. Le conseguenze sono fame, disperazione e la morte della moneta nazionale. Oggi per un solo dollaro servono un milione e duecentomila bolivares, cioè carriolate di inutile carta che nessuno più si preoccupa di avere, perché le principali transazioni sono nella moneta statunitense. Il dramma è che gli stipendi nel settore pubblico e le pensioni sono ancora denominati in bolivares e benché vengano ritoccati in continuazione restano di valore irrisorio. Oggi un professore guadagna tre dollari al mese e un pensionato uno e mezzo. In questo il sogno chavista di creare una seconda Cuba sulla sponda opposta del mar dei Caraibi si può dire realizzato. Come all'Avana da mezzo secolo, oggi in Venezuela si sopravvive solo grazie a lavori extra e rimesse dei parenti dall'estero. Lo stipendio ufficiale è una barzelletta. Ed è sempre tutta colpa dell'embargo americano.

Gli scenari in Venezuela

Quale sia il futuro della dollarizzazione è impossibile dire. I paesi che l'hanno fatta fino in fondo (Ecuador, El Salvador e Panama, in America Latina, da anni non hanno più moneta propria) l'hanno negoziata con la Casa Bianca e la Fed. Mentre oggi tra Maduro e Washington l'unico rapporto è una taglia sulla sua testa per narcotraffico da 15 milioni di dollari. In realtà in Venezuela stanno cambiando altre cose. Molti controlli sui prezzi e sulle importazioni sono stati eliminati, il che ha fatto tornare cibo e merci sugli scaffali (per chi ha i biglietti verdi per comprarli, ovviamente). Se prima il monopolio delle importazioni era governativo, con tutte le distorsioni del caso, ora il business è in mano ai privati, dai più grandi agli “spalloni” da frontiera. Il regime ha poi iniziato ad autorizzare le imprese a finanziarsi in valuta attraverso l'emissione di bond, facendo riprendere l'afflusso di capitali. Infine ha rotto il più venezuelano dei tabù, il prezzo della benzina. Era praticamente gratis, ora almeno si può comprare in dollari. Oppure infilarsi in una fila di dieci ore per avere quella a prezzo calmierato. Resta surreale che il paese con le maggiori riserve petrolifere del pianeta, la benzina la debba spesso far arrivare dall'Iran perché la raffinazione è andata a gambe per aria. A causa dell'embargo, che sta facendo mancare gli ingredienti necessari a trattare il greggio pesante, ma anche per il malfunzionamento degli impianti.

Lo smarrimento cubano

A Cuba si parte da un contesto diverso. Qui l'economia centralizzata ha oltre mezzo secolo di vita, è tuttora di stampo sovietico e l'uscita è iniziata dopo il passaggio di consegne tra Fidel e il fratello Raul Castro, nel 2008. Dodici anni nei quali è successo tutto con molta lentezza e “stop and go”. Ci sono i lavoratori in proprio, ma non ancora le imprese; fisco, banche e finanza sono ancora in embrione. In agricoltura c'è qualche tentativo di lasciare libertà al meccanismo della domanda e dell'offerta. Ma quel che tiene in piedi anche Cuba è il solito dollaro. Sotto forma dei milioni che ogni mese arrivano dalle rimesse dei familiari in Florida, oppure quelli lasciati dai turisti che iniziano a circolare nelle tasche. Dal primo gennaio il presidente Miguel Diaz-Canel ha deciso finalmente di unificare il vecchio peso senza valore, nel quale si ricevono stipendi e pensioni statali, e il Cuc, una moneta in quasi parità con il dollaro, che serve per comprare tutto ciò che non è calmierato. Il nuovo peso unico parte a un cambio di 24 a 1 con il dollaro americano, ma per far sì che la riforma (rimuginata per decenni) funzioni occorrono una serie di aggiustamenti. Salari e pensioni nel nuovo peso aumenteranno di valore, ma alla fine quanti dollari varranno? E i prezzi, che già sono esplosi, saranno adeguati al potere d'acquisto?

Le prime cronache dall'isola riferiscono smarrimento e dubbi. Il capitalismo arriva sempre a spizzichi e solo per stato di necessità. L'economia cubana è nella sua peggiore crisi da 30 anni. Si vive come nei primi anni Novanta quando il crollo dell'Urss lasciò l'isola orfana di tutto. Il petrolio che arrivava quasi gratis dal Venezuela si è ridotto. Idem per i pagamenti dei medici cubani in missione all'estero, una voce enorme del bilancio statale. La mazzata finale è stata la sparizione del turismo straniero per Covid-19. Il pacchetto del governo assomiglia ora a una di quelle manovre lacrime e sangue bollate di neoliberalismo: taglio della spesa pubblica, fine dei sussidi per molte imprese statali oltre alla dollarizzazione strisciante che deriverà dalla riforma monetaria: il nuovo peso arriva insieme all'accettazione ormai totale del biglietto verde nei grandi store  gestiti dallo Stato, dove si venderanno ugualmente prodotti nazionali e importati. Le riforme monetarie a metà, però, sono un film già visto in America Latina. Quando il dollaro viene ancorato a un valore determinato e poco realista, è inevitabile la nascita di un mercato parallelo perché la domanda di valuta pregiata è sempre forte e le aspettative sono di inflazione. Ecco che nelle strade dell'Avana, in questi giorni, già si vendono dollari a 40 nuovi pesos contro i 24 del recente battesimo.

  

  

  

  

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