«Pinochet esta vivo», Pinochet è vivo. È il tweet che il presidente della vicina Colombia, Gustavo Petro, si è lasciato scappare non appena ha saputo del disastroso risultato del plebiscito costituzionale in Cile.

Disastroso, si intende, per il governo di Santiago, per la nuova sinistra cilena rappresentata da Gabriel Boric e anche per le anime progressiste del continente sudamericano che nel 36enne ex leader studentesco venuto dalla Patagonia vedono il modello del momento.

Tra le quali appunto il colombiano Petro, primo presidente di sinistra della storia della Colombia, insediato da appena un mese. La sua vittoria deve qualcosa anche al vento spirato dalla cordigliera cilena.

Pinochet è risorto?

Ma c’è qualcosa di più disastroso del tweet di Petro? È veramente risorto Pinochet? In Colombia quasi tutti hanno pensato che il loro presidente abbia perso un occasione per tacere (o meglio, per lasciare il cellulare in pace).

In Cile anche peggio: nemmeno gli sconfitti, tranne una piccola frangia radicale, hanno interpretato in questo modo la valanga di no alla nuova Costituzione. E le reazioni all’“ingerenza” colombiana sono state veementi.

Gli elettori non hanno votato per riportare in vita Pinochet. I nostalgici veri, in Cile, non superano il 10 per cento, mai avrebbero potuto da soli vincere il confronto con una sinistra che negli ultimi anni si è dimostrata enormemente più forte, nelle urne oltre che nelle piazze. È un vecchio karma per la sinistra del continente: sa arrivare al potere, ma un passo in più è sempre fatale.

Le mosse di Boric

Che non tirasse aria di vittoria l’aveva capito da settimane anche Gabriel Boric. Pur schierato per il sì aveva ammesso che il passaggio del plebiscito non era uno spartiacque tra il prima e il dopo, tra un presunto residuo post fascista e una democrazia popolare, ma piuttosto un pezzo del processo.

E a urne aperte se n’è uscito con un discorso da statista, molto apprezzato. Ha subito convocato i leader dei partiti, maggioranza e opposizione, per decidere insieme come procedere e uscire da una situazione costituzionalmente complicata. Ha detto che occorre lavorare «con più determinazione, dialogo e rispetto», che la prossima proposta di carta magna «deve unire il paese». Ha ammesso insomma che il suo schieramento, quello che ha conquistato a sorpresa il palazzo della Moneda, ha sbagliato a tentare di portare a casa anche una costituzione su misura dei millennial di sinistra.

Come mi ha raccontato una amica cilena a tarda notte: «Io non posso votare un testo dove c'è scritto persona gestante invece di donna incinta».

La necessità di cambiare

Certo, tutti hanno un po’ esagerato. Anche i manifestanti della destra che nella notte festeggiavano nelle strade di Santiago la sconfitta del comunismo.

Certo, la costituzione che rimane in vigore è formalmente quella imposta da Pinochet, ma è anche vero che da allora è stata emendata decine di volte e dell’autoritarismo di quel tempo conserva ben poco.

La necessità di cambiarla, oltre che altamente simbolica, è dovuta ad alcuni vincoli ineludibili: il Cile è stato governato quasi sempre dal centrosinistra nel post dittatura, eppure riformare a fondo scuola, sanità e pensioni dell’èra neoliberista è risultato quasi impossibile proprio a causa della legge fondamentale dello stato.

E poi l’80 per cento dei cileni, in una precedente consultazione, si è già pronunciato a favore di una nuova carta. Impossibile quindi non ricominciare daccapo nel processo. Altro che “è risorto Pinochet”.

Insieme alla ripresa del dialogo con l’opposizione e di un meccanismo per uscire dall'impasse – si vedrà se con una nuova assemblea costituente o meno – Boric dovrà poi pensare anche al futuro del suo governo.

Domenica il sì ha ricevuto solo il 38 per cento dei consensi, che è poi lo stesso livello di popolarità rimasto attaccato alla sua presidenza dopo appena sei mesi al potere. Poco, insomma.

Speranze deluse

Le grandi speranze di rinnovamento sono andate a sbattere contro una realtà assai più complessa, e non solo nel processo costituzionale.

Arriverà adesso un rimpasto di governo, e gli osservatori danno per scontato che Boric dovrà sacrificare alcuni dei personaggi che gli sono più vicini, come l’ex compagno di lotte studentesche Giorgio Jackson, che si è rivelato un pessimo negoziatore con il Congresso, e la ministra dell’Interno Izkia Siches, una dottoressa diventata popolare durante la pandemia che non aveva la minima esperienza per gestire i due grandi problemi di ordine pubblico del paese andino: la rivolta dei Mapuche al sud e il boom di violenza nel nord a causa dell’immigrazione venezuelana fuori controllo. Il Cile ha detto no anche all’inesperienza di Boric.

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