Il tentativo di Pechino di «stabilizzare i rapporti» e «rafforzare la comunicazione» con l’Unione europea non passa per Roma, dove non farà tappa l’attivissimo Wang Yi, che dopo aver partecipato sabato alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco di Baviera, domenica e lunedì ha visitato Madrid e infine si è spostato a Parigi, dove oggi si conclude il dialogo strategico Cina-Francia.

La diplomazia di Xi Jinping sta lavorando sui singoli governi nel tentativo di depotenziare il “de-risking” promosso dalla Commissione presieduta da Ursula von der Leyen. Pechino prova a rafforzare le relazioni bilaterali con i paesi più influenti dell’Ue, tra i quali - dopo che l’esecutivo Meloni non ha rinnovato il memorandum sulla via della Seta - l’Italia ha assunto una posizione più marginale.

Lo spettro di Donald Trump è tornato ad aggirarsi da occidente a oriente e la Cina si offre come alternativa di stabilità, nelle relazioni internazionali come in quelle economiche. La Cina si propone come la potenza che - finora senza grossi risultati - sta promuovendo il dialogo, in Ucraina come a Gaza e nel Mar Rosso, e che vuole mantenere aperto il commercio internazionale.

Sanzioni in arrivo

L’Ue non ci crede, e già oggi - col varo del tredicesimo pacchetto di sanzioni - potrebbe inserire nella lista nera inserire quattro compagnie cinesi, accusate di vendere alla Russia tecnologia a doppio impiego civile-militare, mentre indaga per “dumping” le auto elettriche cinese, sulle quali potrebbe aumentare i dazi d’importazione. Ma Pechino conosce i limiti della politica estera comunitaria e punta a guadagnarsi la fiducia dei governi nazionali. Così con il primo ministro Pedro Sanchez Wang si è accordato per intensificare gli scambi tra i due paesi.

La Cina riprenderà l’importazione di carne bovina, mentre - alla faccia del “de-risking” - sarà incentivata la cooperazione bilaterale nei settori dei veicoli elettrici, dell’economia digitale e delle energie pulite. A Parigi oggi Wang prenderà parte al dialogo strategico Cina-Francia. Nel 2024 ricorrono 60 anni di relazioni diplomatiche tra i due paesi, e Pechino spera di «approfondire la comunicazione strategica, promuovere la cooperazione insieme a maggiori scambi culturali e tra popoli».

A Monaco Scholz - che è atteso da Xi a Pechino il 15-16 aprile - ha affermato che la Germania (paese esportatore come la Cina) si oppone al protezionismo ed è disposta a fornire un «ambiente imprenditoriale di qualità alle imprese di altri paesi in Germania». «L’attuale situazione internazionale sta attraversando un momento difficile e la Germania è disposta a collaborare con la Cina per svolgere un ruolo attivo nel mantenimento della pace e della stabilità», ha affermato il cancelliere.

Dopo l’abbondante impiego del “golden power” da parte del governo Draghi per fermare le acquisizioni cinesi e la decisione di Meloni di uscire dalla via della Seta, l’Italia resta l’unico grande paese europeo che non ha una politica sulla Cina in grado di guardare oltre la retorica del de-risking e le relative iniziative della Commissione.

In questo vuoto pneumatico ci si aggrappa al presidente Mattarella, atteso a Pechino quest’anno (settecentenario della morte di Marco Polo), per mantenere buoni rapporti con la seconda economia del pianeta. Buoni ma sempre più infruttuosi se paragonati agli accordi siglati dai nostri partner-concorrenti europei. A frenare la riduzione della dipendenza dalla Cina auspicata da von der Leyen sono le contraddizioni politiche dell’Ue e motivazioni più strettamente economiche.

Intanto a Berlino

Sul primo fronte, ha destato stupore l’incontro tra il primo ministro ungherese, Viktor Orbán e il ministro cinese della pubblica sicurezza Wang Xiaohong. Secondo l’agenzia Xinhua, i due paesi dovrebbero «approfondire la cooperazione in settori quali l’antiterrorismo, la lotta ai crimini transnazionali, la sicurezza e lo sviluppo delle capacità delle forze dell’ordine nell’ambito della via della Seta».

Ma soprattutto c’è il legame, al momento indissolubile, tra il grande capitale teutonico e la Cina. Anche se a Berlino è assodato che le due economie, per lunghi decenni complementari, sono ormai in competizione, i colossi che hanno favorito lo sviluppo della manifattura locale continuano a scommettere sulla Cina, dove nel 2023 gli investimenti tedeschi hanno registrato un nuovo record: 11,9 miliardi di euro (+4,3 per cento rispetto all’anno precedente) con il volume degli ultimi tre anni superiore a quello dei sei anni precedenti. Mentre le pmi provano a ridurre la dipendenza dalla Cina, le grandi imprese sembrano legarvisi sempre più strettamente.

Non solo, queste multinazionali stanno rilanciando gli investimenti in Cina e riducendo la forza lavoro in Germania. Un rapporto appena pubblicato da Rhodim Group sottolinea che «il fornitore automobilistico tedesco ZF Friedrichshafen, ad esempio, sta tagliando fino a 12.000 posti di lavoro in Germania, cercando allo stesso tempo di aumentare la quota dei ricavi realizzati in Cina dal 18 al 30 per cento entro il 2030.

Ciò ha portato alle proteste del personale tedesco dell’azienda. Anche BASF e Volkswagen hanno annunciato piani di ridimensionamento in Germania, aumentando al contempo gli investimenti in Cina». La stessa strada è stata intrapresa da Bosch, Volkswagen e Mercedes Benz.

Tra il 2016 e il 2023, la quota della Germania sul totale degli investimenti dell’Ue in Cina è stata in media del 58 per cento, in aumento rispetto alla media del 38 per cento del decennio precedente.

Secondo l’analisi di Rhodium Group, i tagli in Germania sono il risultato di costi di produzione e organici troppo elevati e solo parzialmente della concorrenza della Cina.

Ma in futuro tre tendenze potrebbero portare Berlino ad adottare un approccio protezionistico: il calo delle esportazioni in Cina, la riduzione della quota di mercato delle aziende tedesche in Cina e la competizione cinese nei mercati terzi. Quel momento non è ancora arrivato.

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