La missione di Emmanuel Macron in Cina è certamente un fatto politico rilevante che riapre a sorpresa il gioco geopolitico globale in senso multipolare.

Il leader francese ha voluto fortemente questo viaggio per due ordini di ragioni. Il primo era reagire alla delusione di non aver potuto compierlo assieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz a novembre scorso.

Parigi cercò senza successo di convincere Berlino che era meglio andare assieme per esprimere una posizione europea più forte. Ma Scholz scelse la via solitaria -accompagnato da molte sue imprese - spinto dall’allarme del settore privato tedesco: dopo aver rinunciato al gas russo in Germania nessuno voleva rinunciare anche al mercato cinese. Paventando un altro veto americano, andare a Pechino da soli per i tedeschi significava mettere le mani avanti. Si cercò di ottenere qualche rassicurazione sul conflitto da Xi Jinping, anche se non ne venne fuori granché.

La missione di Macron

Macron ha cercato ora di recuperare sia dal punto di vista europeo (essersi fatto accompagnare da Ursula von der Leyen ha avuto questo significato) sia da quello della pace. E qui c’è la seconda ragione del viaggio francese: sfruttare l’opportunità offerta da Pechino mediante la sua proposta di pace, di cui si conoscono soprattutto i 10 principi base.

Il leader cinese è andato a Mosca ad illustrarli, dove ha avuto colloqui approfonditi con Vladimir Putin dal quale ha tratto la conclusione che è ancora troppo presto per la pace. Su questa scansione temporale Macron ha voluto mettere la sua impronta: posto che «il tempo è ancora quello militare», come ha dichiarato, occorre comunque preparare il negoziato, «gettare le basi».

Ha anche cercato di ottenere la promessa di una telefonata a Kiev, che era stata annunciata ma mai fatta. In questo modo la Francia si è voluta collocare (malgrado le correzioni successive) a metà strada tra le posizioni occidentali di sostegno all’Ucraina – pur riaffermate - e l’eventualità futura di una trattativa, mediata assieme alla Cina o chissà. A Washington non sono ovviamente contenti, così come non lo furono per il precedente viaggio del cancelliere tedesco: qualunque mossa europea non allineata con gli Stati Uniti è considerata pericolosa perché rischia di dare l’impressione di un occidente diviso. 

Già fioriscono sui media commenti in cui la Francia viene paradossalmente trattata da “ventre molle” dell’alleanza atlantica. Tuttavia Macron ha scommesso sul fatto che l’immobilismo e la polarizzazione delle posizioni occidentali assunte fino ad ora, costituiscano un limite che occorre essere pronti a superare. D’altronde Mosca si è sbrigata a dichiarare che la Francia non può porsi in posizione mediativa, segno che la mossa ha colto nel segno. Parigi non vuole lasciare alla sola Cina l’onore e l’onere di un futuro dialogo tra russi ed ucraini o – ancor più - tra russi e americani.

Il concetto di autonomia strategica

L’iniziativa di Macron è certamente coraggiosa: ribadire la necessità per l’Europa di avere una “autonomia strategica” (vecchia posizione francese) per non sottostare ad ogni imposizione esterna, leggi americana ma non solo. Ciò vale soprattutto in Asia dove Macron ha lasciato intendere di non voler accettare il «precipitare della crisi di Taiwan» perché non è nell’interesse europeo.

A tal proposito occorre rammentare l’irritazione francese per due decisione americane nel quadrante indopacifico: l’esclusione di Parigi dai vertici di area e l’estromissione dalla commessa dei sommergibili all’Australia, a favore di quelli Usa. Parigi evidentemente se l’è legata al dito e il viaggio a Pechino e Canton è stata l’occasione per ribattere. Resta da vedere se Xi Jinping, evidentemente soddisfatto per i risultati della visita di Macron che ha ricevuto con tutti gli onori, sarà in grado di svolgere il suo ruolo di mediatore o almeno di calmierare la furia russa.

La prima prova sarà la telefonata con Volodymyr Zelensky, che quest’ultimo aspetta da settimane. Dal canto loro gli Stati Uniti dovranno trovare il modo per contenere le iniziative francesi offrendo qualcosa in contraccambio. Non è tanto la posizione sulla guerra in Ucraina a preoccupare Washington, ma la divaricazione di vedute sulla questione di Taiwan. Macron ha dato voce a ciò che pensano sommessamente molte cancellerie europee: morire per Kiev può avere un senso ma per Taipei assolutamente no.

L’idea di una guerra tra Usa e Cina, anche se limitata allo scenario del Pacifico, è percepita come una minaccia globale, così come le mosse delle autorità americane (i vari incontri con i dirigenti di Taipei) non sembrano ragionevoli a molti leader europei. Come scrive l’ex premier australiano Kevin Rudd, buon conoscitore delle dinamiche di Pechino e di Xi Jinping, Usa e Cina non si capiscono: «Dimostrando spesso una combinazione di reciproca ferma incomprensione, un’immagine speculare che ha caratterizzato per troppo tempo e sotto troppi aspetti le loro relazioni». Resta da chiedersi se gli europei capiscano la Cina meglio degli americani.

La prospettiva cinese

Per Pechino allargare la crepa tra occidentali sui vari dossier caldi sarebbe già un successo. Ma i cinesi devono rammentare che, anche quando in frizione con gli interessi americani, gli europei restano comunque sensibili ai timori giapponesi e di altri stati asiatici, i quali non vedono di buon occhio l’emergere di un’egemonia cinese che porta con sé un modello autoritario e delle minacce militari.

Per ovviare ai questi timori Pechino farebbe bene ad allontanarsi dalla sua «alleanza senza limiti» con Mosca dando segnali rassicuranti anche in Asia. Una partita molto complessa le cui spie di tensione si accendono ad ogni riunione del G20, coinvolgendo anche l’India. In ogni caso la Cina ha messo in chiaro di voler proseguire nella globalizzazione economica e commerciale (che fin qui l’ha favorita assieme a molti paesi asiatici) mentre gli Usa non lo auspicano (come si è notato dai tempi di Barack Obama ad oggi).

Germania e Francia al contrario sarebbero favorevoli, a patto che ciò non cambi l’equilibrio strategico globale (in particolare quello militare). Su tale tema Macron sostiene che una maggior autonomia strategica europea potrebbe svolgere una funzione di equilibrio tra blocchi. Davanti a tali evoluzioni dove si situa l’interesse nazionale italiano? Da una parte l’alleanza storica con gli Stati Uniti non può essere messa in discussione: ogni variazione a questo livello sarebbe controproducente per il nostro paese.

Tuttavia durante la prima repubblica l’Italia era in grado di prendere iniziative indipendenti (ad esempio nel Mediterraneo orientale), senza che questo potesse essere considerato come uno strappo nei confronti dell’alleanza atlantica. Una maggior autonomia strategica potrebbe favorirci se sapremo prenderci le nostre responsabilità come media potenza mediterranea.

La Francia ci chiede una maggior collaborazione in Africa ma ancora non è chiara la qualità della cooperazione che si potrebbe avere con Parigi sia in Libia che in Tunisia e Libano, aree di crisi del nostro estero vicino da cui provengono anche i flussi migratori. Per Roma potrebbe aprirsi un periodo di opportunità da cogliere pragmaticamente, sia sul versante europeo che su quello atlantico. Serve tuttavia a tale scopo la volontà politica di giocare un ruolo a livello internazionale e la capacità operativa per metterlo in pratica. 

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