C'è del metodo cinematografico nella pornografia del dolore che Hamas ha scelto con i video degli ostaggi. L'Isis usava il colpo di scena, la testa mozzata, i corpi bruciati dentro una gabbia. Hamas preferisce la suspence, una mini docu-serie a puntate.

Un filmato con tre israeliani che parlano al pubblico globale; il giorno dopo il sovrapprezzo di cinismo con un quiz di inaccettabile ferocia: chi è ancora vivo? Infine, terzo episodio, lo svelamento: la bella Noa, emblema della carneficina del 7 ottobre, è l'unica sopravvissuta, gli altri due uccisi «dai bombardamenti israeliani».

A corredo la supplica di smetterla con la guerra e di riportare a casa lei e gli altri superstiti del ratto di massa. Un prolungamento sadico di agonia per dilatare la drammaturgia.

Propaganda terroristica feroce e inumana. Davanti alla quale al giornalismo si pone un antico dilemma: diffonderla, oppure censurarla per non fare da cassa di risonanza?

Scartata senz'altro la seconda opzione non solo per non contraddire una regola fondamentale della professione per cui le notizie si danno, tutte. Ma anche perché, nella proliferazione orizzontale dei social, il documento diventerebbe comunque virale nel giro di pochi attimi, l'informazione non è più un'esclusiva dei mezzi tradizionali, si disperse in mille rivoli incontrollati nella giungla mai disboscata né regolamentata della Rete.

Dunque la questione non è “se” dare la notizia ma “come” darla. È il “come” che diventa dirimente tra una buona e una cattiva informazione. È su quel terreno che i media tradizionali si giocano prestigio e credibilità. È lì che onorano la quintessenza della loro missione, dando significato compiuto alla radice etimologica del loro stesso nome ponendosi come “intermediari” tra il fatto e il pubblico.

La grande parte dei giornali internazionali ha scelto la minimizzazione. Niente prima pagina, articoli succinti, poco spazio ai profeti della guerra santa. Un'asetticità che, pur al riparo dallo sfogatoio di commenti inappropriati, non è la soluzione migliore.

Perché l'orrore attira comunque come una calamita, prova ne sia la fortuna di fiction incentrate sulle saghe dei grandi criminali. E l'orrore si depotenzia solo se sciolto in un contesto che spieghi, che parli al cervello invece che al cuore o alle viscere. Che imponga lo spazio della riflessione in una sorta di straniamento brechtiano.

Disinnescare gli effetti

Nel caso in esame si trattava anzitutto di disinnescare gli effetti della tempistica scelta da Hamas. I video sono stati rilasciati a ridosso dei telegiornali della sera, normalmente i più seguiti. Dunque con poco tempo per verifiche, analisi, commenti.

Il bersaglio da colpire era, in primis, il pubblico israeliano, molto sensibile al destino degli ostaggi e già largamente critico nei confronti dell'operato del governo Netanyahu.

Falliti i tentativi di coinvolgere i paesi arabi nel conflitto esploso da cento giorni, risultate sterili anche le pressioni del presidente americano Joe Biden perché cessi la mattanza a Gaza, ecco la carta di tentare di dividere ulteriormente l'opinione pubblica dello Stato ebraico, creare una frattura interna che possa produrre lo scopo evidente: la fine delle ostilità.

La fine delle ostilità è cara a tutte le persone di buona volontà. Non a prezzo, però, che venga raggiunta dietro un ricatto disgustoso.

Denunciare quell'utilitaristico ricatto, raccontare qual è il motivo che l'ha prodotto, smascherare il meccanismo dell'intento violento, ecco lo specifico della professione giornalistica. Altrimenti resta il quiz a perdere che, mondato dai suoi contorni, potrebbe persino essere percepito come sagacia comunicativa.

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