Bruxelles rivendica il controllo sugli investimenti esteri diretti di Pechino nell’Unione europea e sulle esportazioni di prodotti a doppio uso (civile-militare) dai paesi membri verso la Cina. Sarebbe una mezza rivoluzione (si tratta di prerogative dei singoli stati), indispensabile secondo chi la promuove per far fronte alla «nuova realtà geopolitica».

Così, con lo European Economic Security Package (Eesp) appena presentato al parlamento e al Consiglio – che dovranno esaminarlo ed eventualmente approvarlo nei prossimi mesi – la Commissione punta a rafforzare il regolamento in vigore dall’ottobre 2020.

Norme, assai poco vincolanti, che erano arrivate dopo gli anni ruggenti delle acquisizioni cinesi nel Vecchio continente, dalla vendita del gigante tedesco della robotica Kuka a Midea, a quella del porto greco del Pireo a Cosco. Passaggi clamorosi avvenuti entrambi nel 2016, quando gli investimenti di Pechino nella Ue hanno raggiunto il livello più alto (47,4 miliardi di euro).

Da allora sono diminuiti costantemente, arrivando a 7,9 miliardi nel 2022, anno in cui, per la prima volta, i “greenfield” (nuovi stabilimenti produttivi, come quello di auto elettriche in Ungheria annunciato il mese scorso da Byd) hanno superato le “merger & acquisition”.

Il progetto della Commissione non è diretto esplicitamente alla Cina, ma a tutti i «paesi che destano preoccupazione», contrapposti ai «partner affidabili». Tuttavia esso s’inquadra ufficialmente nella politica di “de-risking” (di riduzione della dipendenza dalla Cina) parte della strategia di sicurezza economica illustrata nel giugno scorso dalla presidente Ursula von der Leyen.

Nuove protezioni

La proposta è quella di un controllo obbligatorio sugli investimenti diretti all’estero (Ide) effettuati all’interno dell’Ue da compagnie direttamente o indirettamente controllate da entità straniere.

La Commissione suggerisce di estendere la supervisione al di là dei settori precedentemente individuati come i più critici (semiconduttori, intelligenza artificiale, informatica quantistica e biotecnologie). L’obiettivo è la creazione di un sistema uniforme che impegnerebbe i paesi dell’Ue a controllare non solo gli investimenti in entrata ma anche quelli intra Ue, quando questi ultimi siano effettuati da filiali Ue di entità extracomunitarie.

È prevista inoltre la possibilità per gli stati membri dell’Ue di condurre «procedure di iniziativa propria» (Oip) riguardanti gli investimenti diretti esteri pianificati in un altro stato membro, qualora ritengano che potrebbero influire sulla propria sicurezza e ordine pubblico.

A essere coinvolti nel sistema di controllo abbozzato sarebbero anche gli Ide “greenfield” che – secondo il documento della Commissione – «creando nuove strutture, possono avere un impatto sulla sicurezza e sull’ordine pubblico, anche quando tale rischio riguarda input economici essenziali».

L’esecutivo comunitario ha anche proposto un periodo di monitoraggio di 12 mesi per valutare se gli investimenti in uscita rischiano di esportare tecnologie sensibili come l’intelligenza artificiale, i semiconduttori, l’informatica quantistica e biotecnologie.

Tra i 27 (a partire da Francia e Germania) c’è scetticismo, perché gli stati non vogliono rinunciare a un loro potere, e per le ripercussioni che questi meccanismi di protezione potrebbero avere sul complesso delle relazioni con la Cina.

Intanto, il 18 gennaio scorso, il parlamento Ue ha approvato a larga maggioranza (565 sì, 26 no e 31 astenuti) una risoluzione sulle «implicazioni in materia di sicurezza e di difesa dell’influenza della Cina sulle infrastrutture critiche nell’Unione europea» che chiede di agire per contrastare la «strategia di fusione militare-civile» di Pechino.

Deficit monstre

Il pressing diplomatico cinese degli ultimi mesi nelle capitali europee e il recente incontro a Pechino tra i vertici dell’Ue con Xi Jinping non hanno prodotto una distensione tra i due blocchi.

Il presidente ha risposto alla richiesta di riequilibrare il colossale deficit commerciale dell’Unione nei confronti della Cina (400 miliardi di euro nel 2022) sostenendo che esso sarebbe il frutto della maggiore competitività delle aziende cinesi.

Mentre le compagnie europee fanno sempre più fatica a entrare o a rimanere nel più grande mercato asiatico, per la concorrenza locale e le condizioni di accesso, che non sono più quelle ultravantaggiose di una volta.

Dopo l’avvio, il 4 ottobre scorso, di un’inchiesta anti dumping della Commissione sull’importazione nell’Ue di veicoli elettrici made in China, Byd ha annunciato la costruzione nel sud dell’Ungheria di un grosso impianto di produzione di auto elettriche.

La politica industriale di Pechino ha creato nel settore degli Ev un eccesso di capacità, che i produttori sperano di poter esportare nel mercato dell’Ue, dove i modelli dei brand europei sono tuttora pochi e costosi. L’altro ieri l’ambasciatore cinese presso l’Ue, Fu Cong, ha definito «ingiusta» la procedura di Bruxelles e avvertito che, se Pechino adottasse lo stesso approccio, «ci sarebbero molte cose che potrebbero essere indagate».

Il 5 gennaio scorso Pechino ha dato una prima risposta, avviando un’inchiesta sul brandy importato dall’Ue che potrebbe portare all’aumento dei dazi sull’importazione del cognac dalla Francia, paese che ha spinto per l’avvio della procedura sui veicoli elettrici. Un uno-due che non promette nulla di buono, tanto che Valdis Dombrovskis ha protestato contro la mossa cinese, definita «arbitraria».

Il commissario al Commercio ha mandato a dire a Pechino che «i paesi possono avere controversie commerciali, questo non è inaudito, ma è importante seguire regole e procedure per affrontarle. Sto sottolineando la necessità che tutte le parti si attengano a un approccio basato su regole e fatti». «Saremo più assertivi e agiremo se vediamo ragioni oggettive per agire e vediamo altri paesi che non seguono le regole concordate a livello internazionale», ha concluso Dombrovskis.

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