Sistemi informatici militari che si connettono automaticamente all’intelligenza artificiale (Ia) civile, per aiutare i primi a reagire in maniera più rapida ed efficace a scenari di guerra complessi. Per esplorare questa possibilità l’Esercito popolare di liberazione (Epl) si è collegato per la prima volta a Ernie, la versione locale di ChatGpt creata da Baidu, e Spark, un analogo “large language model” (Llm) di iFlyTech, un’altra compagnia cinese all’avanguardia. Con Ernie e Spark la Forza di supporto strategico dell’Epl ha simulato un combattimento tra marine e miliziani in Libia, riuscendo a prevedere le mosse dei soldati Usa.

Il sistema sperimentato dall’Epl funziona così. La “Ia militare” raccoglie le informazioni sul posizionamento e sugli armamenti in dotazione alle unità impegnate al fronte, le converte in testo descrittivo e immagini con le quali interroga il software di Ia commerciale e, dopo il confronto tra le due Ia, elabora una risposta. «I risultati della simulazione aiutano il processo decisionale umano... e possono essere utilizzati per affinare il bagaglio di conoscenze di combattimento della macchina e migliorare ulteriormente il livello di cognizione di combattimento della macchina», ha scritto sul numero di dicembre di Command Control & Simulation Sun Yifeng, a capo del gruppo di ricerca dell’Epl.

L’accordo di San Francisco

Ne deriverebbe (il condizionale è d’obbligo) una “Ia militare” in grado di comprendere e rispondere ai comportamenti umani, Terminator “con caratteristiche cinesi”. «Non siamo a conoscenza del progetto di ricerca e, se fosse stato utilizzato il nostro Llm, si tratterebbe della versione pubblicamente disponibile online», ha replicato Baidu allo scoop pubblicato il 12 gennaio da South China Morning Post.

Il colosso del commercio elettronico Alibaba proprietario del quotidiano hongkonghese il 7 aprile 2023 ha lanciato il suo chatbot Tongyi Qianwen, rivale di Ernie. E lunedì scorso, giorno di riapertura della borsa di Hong Kong dopo l’uscita dell’articolo, il titolo Baidu ha perso l’11,5 per cento (il tonfo più pesante dal 2022). Il “debunking” effettuato lo stesso 15 gennaio dal pechinese Center for China and Globalization ha costretto il giornale a una parziale rettifica a seguito di tre contestazioni da parte del think tank non governativo: non esiste al momento in Cina una Ia militare; quello pubblicato sulla rivista accademica cinese è semplicemente uno studio teorico; i ricercatori hanno interrogato versioni di Llm cinesi accessibili a chiunque.

Nondimeno l’articolo del team di Sun rivela che la Cina (così come altre potenze) è proiettata in un futuro in cui le macchine potrebbero prendere decisioni e uccidere sul terreno di battaglia in piena autonomia, senza l’intervento di esseri umani.

Uno dei tre punti d’accordo (oltre alla ripresa del dialogo tra i rispettivi eserciti e al contrasto al fentanyl) raggiunti da Xi Jinping e Joe Biden il 15 novembre scorso è l’avvio di una discussione comune sui rischi associati all’intelligenza artificiale, in particolare in ambito militare. Tuttavia, mentre dovrebbe essere tutto sommato scontata una convergenza sulla necessità di proibirne l’applicazione agli armamenti atomici, è difficile immaginare che Pechino o Washington vogliano rinunciarvi in altri ambiti. Negli Stati Uniti, in Cina e altrove si è già accumulata una corposa letteratura che esplora l’impiego della Ia nei sistemi di difesa aerea e missilistica. Chi arriverà primo vorrà approfittare del vantaggio conseguito sull’avversario.

Sabbia negli ingranaggi

Prima che, il 7 ottobre 2022, entrasse in vigore l’embargo decretato dall’amministrazione Biden, per la sua Ia la Cina faceva affidamento al 90 per cento su processori grafici (Gpu) della californiana Nvidia. Materiale di piccole dimensioni e dai costi relativamente contenuti (circa 10.000 dollari per unità), che – anche nei casi dei più potenti A100 e H100 – nel corso del 2023 ha continuato a entrare in Cina di contrabbando, finendo a istituti di ricerca militari, d’intelligence e università d’élite, come documentato da una ricerca della Reuters su un centinaio di gare d’appalto.

Chris Miller, autore di Chip War: The Fight for the World’s Most Critical Technology, ha spiegato che la strategia di Washington prevede di «gettare sabbia negli ingranaggi dello sviluppo della Ia cinese impedendole di costruire i grandi agglomerati di chip avanzati necessari per istruire la Ia» (per creare un Llm come ChatGpt c’è bisogno di migliaia di schede Nvidia A100). Tuttavia, più che il mercato nero, i divieti Usa all’export verso la Cina stanno accelerando la spinta di Pechino alla ricerca in un settore che – come da tradizione nei periodi di difficoltà – sta evidenziando la capacità del paese di fronteggiare i contesti avversi adattandovisi. Le restrizioni statunitensi investono “solo” i microchip e i macchinari per fabbricarli più avanzati. Ma gli scienziati e i tecnici cinesi sono abilissimi nel modificare, mettere assieme, perfezionare tutti gli altri, ai quali possono accedere liberamente sul mercato, per raggiungere performance simili a quelle assicurate dai prodotti non più disponibili.

Il “Grande fondo” statale istituito nel 2014 ha investito finora circa 50 miliardi di dollari nei semiconduttori, ed è pronto a raccogliere altri 40 miliardi. Secondo la shanghaiese Cinno Research, i ricavi dei 10 principali produttori cinesi di apparecchiature per chip sono aumentati del 39 per cento nella prima metà del 2023 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. Secondo l’analisi della banca d’investimento Ubs, nel corso del 2024 Pechino insisterà sullo sviluppo dei “large language model” e cercherà di compiere progressi malgrado i limiti posti dall’embargo Usa, attingendo ai programmi nazionali di accelerazione dell’intelligenza artificiale e adottando un approccio più parsimonioso nell’uso delle risorse informatiche.

Meme patriottico

Il 17 ottobre 2023, il Bureau of Industry and Security (Bis) del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ha pubblicato le nuove regole sui controlli sulle esportazioni, relative alle esportazioni statunitensi di chip avanzati e apparecchiature per la produzione di semiconduttori. Un irrigidimento dell’embargo deciso dopo che Huawei (da anni sotto sanzioni Usa) ha stupito il mondo con uno smartphone, il Mate 60 pro, che monta un microprocessore, il suo Kirin 9000, prodotto con tecnologia a 7 nanometri, che si riteneva che la Cina non possedesse. Il 3 settembre scorso, Gina Raimondo è stata immortalata dal Mate 60 pro durante la sua visita in Cina, in un’immagine che l’ha resa testimonial inconsapevole della compagnia di Shenzhen in una serie di meme patriottici diventati virali. Nel corso di una successiva audizione al Congresso, la segretaria del commercio artefice delle ultime misure commerciali anti Pechino ha definito il nuovo microchip di Huawei «estremamente allarmante».

L’amministrazione Biden ha in seguito esercitato pressioni affinché si allineassero al suo embargo hi-tech sul Giappone e sull’Olanda, dove hanno sede rispettivamente Tokyo Electron e Asml, compagnie leader di apparecchiature per la produzione di chip.

Ai successi nel breve termine delle politiche Usa di contenimento si contrappongono, nel medio periodo, le contromosse cinesi, che prevedono, tra l’altro, l’aumento della cooperazione tra le compagnie hi-tech nazionali. Ad esempio, Baidu ha recentemente ordinato da Huawei chip per l’intelligenza artificiale 910B Ascend (per 200 server e un valore di 61 milioni di dollari), che l’azienda di Shenzhen ha sviluppato come alternativa alla Gpu A100 di Nvidia. Nel settore delle auto elettriche, le tensioni internazionali hanno indotto Byd a spingere ancora più in alto l’asticella della sua integrazione verticale: quasi tutte le componenti dei suoi veicoli, compresi i microchip, vengono prodotte in quella che è diventata un’azienda modello per la strategia di “innovazione autoctona” promossa dal Partito comunista.

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