«Non dubitate: l’America è irremovibile nel suo sostegno al popolo di Taiwan, ora e nei decenni a venire», ha twittato ieri sera Nancy Pelosi mentre il suo volo di stato decollava da Taipei alla volta di Seul.

Tsai Ing-wen le ha fatto il controcanto, augurandosi di «fare di Taiwan una forza di stabilizzazione chiave per la sicurezza regionale, garantendo un Indo-Pacifico libero e aperto, nonché uno sviluppo stabile del commercio globale e delle catene di approvvigionamento».

Nelle dichiarazioni della presidente taiwanese e della terza carica degli Stati Uniti che ha incontrato Tsai, ha visitato il parlamento e discusso con un gruppo di dissidenti anti Pechino, è racchiusa la fine di un’epoca, quella nella quale Washington si è attenuta ai princìpi “Una sola Cina” e di “ambiguità strategica”, oggi avversati dai tanti democratici e repubblicani convinti che la Cina vada “contenuta” come l’Urss durante la Guerra fredda.

Si torna alla situazione pre 1979 (quando gli Stati Uniti, voltando le spalle a Taiwan, riconobbero la Repubblica popolare cinese per tenerla lontana dall’Urss): Taiwan – pur non riconosciuta come stato indipendente dagli Usa –  ridiventa, di fatto, un alleato politico e militare in funzione anti Pechino.

«Abbiamo discusso di come l’America e Taiwan possono approfondire i loro legami economici, rafforzare ulteriormente la partnership per la sicurezza e difendere i valori democratici condivisi», ha aggiunto Pelosi.

L’esponente democratica non si è fermata davanti all’alt di Xi Jinping, che giovedì scorso aveva invitato Joe Biden a «non scherzare col fuoco», e ha visitato in circostanze più difficili rispetto al suo predecessore Newt Gingrich (nel 1997) il paese che la Rpc considera un suo territorio, da “riunificare” alla madrepatria. Come a voler ricordare all’avversario chi ancora esercita l’egemonia politico-militare nel Pacifico.

«Un modello di democrazia»

Da ieri però le relazioni tra Cina e Stati uniti hanno toccato nuovo minimo. L’ambasciatore a Pechino, Nicholas Burns, è stato convocato dal viceministro degli esteri, Xie Feng, che ha espresso una «dura protesta» per una visita «oltraggiosa e dalle conseguenze estremamente gravi».

Ci aspettano mesi, forse anni, di tensione attorno all’ex Formosa, sulla quale Pechino proverà, con pressioni militari ed economiche, a riaffermare la sua influenza.

Pelosi ieri ha incontrato le massime autorità locali, da Tsai a Morris Chang, l’anziano fondatore di Tsmc, il colosso taiwanese che produce oltre l’80 per cento dei semiconduttori più avanzati.

La leader democratica ha elogiato Taiwan come modello «di una democrazia che si è evoluta diventando più forte e ora rappresenta un netto contrasto con ciò che sta accadendo nella Cina continentale. Non sono necessarie altre prove rispetto a quanto accaduto a Hong Kong sotto “un paese, due sistemi”», il compromesso politico che Tsai ha sempre respinto per ricomporre la frattura prodotta tra le due sponde dello stretto quando nel 1949 sull’isola istituirono il loro governo i nazionalisti sconfitti dai comunisti nella guerra civile.

A Taipei Pelosi si è intrattenuta anche con Wu’er Kaixi, uno dei leader più noti del movimento di Tiananmen del 1989, e Lam Wing-kee, fuggito nel 2019 da Hong Kong dopo che la sua casa editrice aveva pubblicato libri con indiscrezioni sulle vite private dei leader di Pechino.

Pelosi ha lodato Tsmc per il suo investimento da 12 miliardi di dollari in Arizona, forse ignara delle dichiarazioni dello stesso Chang, che qualche settimana fa aveva avvertito che produrre uno stesso microprocessore negli Usa costa il 50 per cento in più che a Taiwan.

Classe 1931, il patron di Tsmc aveva aggiunto che, in caso di guerra, «avremo tutti molto di più dei semplici microchip di cui preoccuparci».

A Taipei già si parla del possibile sbarco di altre figure istituzionali, di paesi anglosassoni, che segnerebbe un ulteriore successo per la strategia di internazionalizzazione della questione taiwanese promossa da Tsai.

Prove di blocco navale

Intanto però Pechino ha annunciato esercitazioni militari in sei punti delle acque intorno a Taiwan, che dovrebbero cominciare oggi e concludersi tra una settimana.

I war game si svolgeranno tutti al di là della “linea mediana” che divide in due lo stretto e, in un paio di punti, potrebbero spingersi all’interno del confine marittimo taiwanese.

In questo modo la leadership cinese vuole dimostrare che la sua marina è già in grado di attuare un blocco navale per accerchiare Taiwan, lasciando il mondo senza semiconduttori e l’Isola senza rifornimenti e approvvigionamenti.

Quella che sembrerebbe l’alternativa a un’azione militare contro i cugini-nemici potrebbe avere contraccolpi simili a quelli di un conflitto, con l’isolamento della Rpc e un intervento militare Usa.

Nell’immediato le manovre militari cinesi aumenteranno comunque il rischio di un incidente in un’area in cui si sono concentrate negli ultimi giorni anche forze navali statunitensi e nipponiche.

Più simbolici i primi provvedimenti commerciali varati contro Taipei, come il blocco dell’esportazione di alcuni minerali per la produzione di microchip, che Taiwan importa solo per il 3 per cento dalla Rpc, e di altri utilizzati nelle costruzioni, oltre a quello delle importazioni (ammantato da provvedimenti anti Covid) di agrumi, capesante e sgombri.

Le sanzioni sono un’arma da maneggiare con cura, perché il capitale taiwanese (a cominciare dal colosso dell’elettronica Foxconn, primo datore di lavoro del settore privato nella Rpc) ha sul continente investimenti che da decenni contribuiscono allo sviluppo della Cina.

Secondo Chen Yi-fan, Pechino colpirà probabilmente l’agricoltura e i piccoli produttori in alcune parti del sud di Taiwan, dove il Partito progressista democratico di Tsai Ing-wen ha le sue principali roccaforti. Per il docente di diplomazia e relazioni internazionali all’università di Tamkang di Taiwan Pechino spera di influenzare le elezioni locali di Taiwan a novembre.

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