Il 6 novembre è iniziata la Cop27 (da Conference of parties), la Conferenza sul clima in cui i leader dei paesi di tutto il mondo, così come anche diversi attori non statuali, si confrontano sulle politiche da adottare nella lotta al riscaldamento ambientale e all’inquinamento. A ospitare l’evento fino al 18 novembre è l’Egitto, nella città di Sharm el-Sheikh bagnata dal mar Rosso. 

Dopo un anno record per temperature, siccità, inondazioni e uragani, le settimane di avvicinamento alla Cop27 sono state dense di impegni e proclami, ma anche di polemiche sulla mancanza di rispetto dei diritti civili in Egitto, sul poco coinvolgimento delle Ong, sull’assenza della nota attivista Greta Thunberg, e caratterizzate da un generale senso di sfiducia dopo i risultati dell’edizione precedente. La Cop26 di Glasgow, infatti, nonostante avesse posto nelle conclusioni degli obiettivi concreti, non sembra di fatto aver portato a rilevanti passi in avanti nella battaglia contro il cambiamento climatico.

Anzi, i risultati sono stati insufficienti. In Scozia i paesi avevano preso l’impegno di ridurre le emissioni di gas serra e l’uso del carbone sulla scia degli Accordi di Parigi del 2015. L’obiettivo era mantenere l’aumento di temperatura sulla Terra di 1,5°C alla fine del secolo, ma secondo l’Emission gap report 2022 del Programma delle Nazioni unite per l’ambiente (Unep) si va verso un aumento di 2,8°C. In tutto questo i propositi dichiarati a Glasgow dagli attori mondiali di presentare nuovi documenti programmatici non vincolanti sul clima sono in gran parte falliti. Nel 2022 solo 24 paesi su 193 hanno infatti recapitato all’Unfccc (United Nations framework convention on climate change) un nuovo piano di riduzione delle emissioni nazionali. 

A impattare sulle più o meno reali volontà di agire delle nazioni per contenere il riscaldamento climatico è stato il conflitto in Ucraina e le tensioni a livello internazionale. La crisi energetica scaturita dall’invasione russa ordita da Vladimir Putin ha causato una rivalutazione degli aspetti ambientali, così come la competizione e gli attriti tra Stati Uniti e Cina. Gli obiettivi sulla carta della Cop27 li ha annunciati il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres, che ha spronato i paesi partecipanti: «Il nostro pianeta è sulla buona strada per raggiungere il caos climatico irreversibile. È tempo di un patto storico tra economie sviluppate ed emergenti», ha aggiunto Guterres, e «la Cop27 deve essere il luogo in cui ricostruire la fiducia e ristabilire l’ambizione necessaria per evitare di condurre il nostro pianeta oltre il precipizio climatico».

Per capire cosa emergerà da Sharm el-Sheikh, quindi, gli occhi sono puntati soprattutto sui più grandi inquinatori al mondo, attori globali come Cina, Stati Uniti e Unione europea, ma anche sui paesi meno sviluppati.

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Gli Stati Uniti di Biden

La partecipazione di Joe Biden al vertice della Cop27 è prevista l’11 novembre, pochi giorni dopo le elezioni di midterm negli Usa. Il presidente statunitense, indebolito dalle pressioni interne, ha cercato in questi due anni di portare avanti una politica ambientale in netto distacco da quella del suo predecessore Donald Trump. 

La più grande mossa in questo senso è stata la firma nell’estate scorsa dell’Inflation reduction act, uno dei più ampi investimenti per il clima compiuto dagli Stati Uniti. Il piano annunciato prevede finanziamenti per oltre 750 miliardi di dollari per combattere l’inflazione e il caro bollette, ma di questi circa 369 miliardi di dollari mirano a tagliare del 40 per cento le emissioni di gas a effetto serra da qui al 2030, incentivando la produzione di rinnovabili e posti di lavoro green. 

L’Inflation reduction act rappresenta il fiore all’occhiello e il biglietto di presentazione di Biden alla Cop egiziana, ma da Washington sono arrivati anche segnali meno positivi per l’ambiente. Con la guerra in Ucraina e la crisi energetica, Biden ha rilasciato grandi quantità di petrolio dalle riserve statunitensi, oltre ad avviare nuovi progetti di trivellazione per giacimenti di gas e “olio nero”. Inoltre, la tensione con Pechino sull’isola di Taiwan, dopo la visita della speaker della Camera a Taipei lo scorso agosto, ha fatto saltare il dialogo sul clima tra la Cina e gli Usa – i due principali inquinatori al mondo – con potenziali ricadute su tutto il contesto internazionale.

La delegazione statunitense dovrà poi fare i conti con le richieste dei paesi in via di sviluppo, che reclamano la creazione di un meccanismo di risarcimento per i danni e le perdite economiche dovute al riscaldamento climatico, il famoso “loss and damage” al centro di tutta la Cop27 e incluso nell’agenda. Washington si era opposta già a Glasgow a un fondo comune da cui attingere per le compensazioni e nell’ultimo anno non ha cambiato posizione.

L’ambigua Cina senza Xi

La Cina oggi è il maggior responsabile al mondo di emissioni ogni anno, per circa il 30 per cento del totale, ma rispetto alle altre potenze globali è considerata negli accordi di Parigi un paese in via di sviluppo, e quindi gode di particolari garanzie. L’impegno di Pechino è di arrivare al massimo delle emissioni di CO2 prodotte entro il 2030 e di raggiungere la neutralità carbonica nel 2060, solo che a oggi continua a costruire centrali a carbone. In compenso la Repubblica popolare cinese è tra i leader mondiali nella transizione verso le rinnovabili, tra energia eolica e solare. 

Pechino ha tenuto un atteggiamento ambiguo a Glasgow, proprio in virtù della condizione di paese più inquinante ma in teoria ancora non sviluppato, nonostante lo stato della sua economia. Una condotta che con ogni probabilità replicherà anche in Egitto. Il leader Xi Jinping non ci sarà, ma la delegazione cinese ha già fatto capire che la priorità è l’attuazione delle questioni di finanziamento e di adattamento per venire incontro ai paesi in via di sviluppo. Una responsabilità tutta sulle spalle dei paesi più ricchi. 

Il direttore generale del dipartimento per i cambiamenti climatici del ministero dell’Ambiente Li Gao ha appoggiato l’istanza di Guterres di ampliare a livello globale il sistema di allerta per prevenire i disastri climatici. Inoltre, Li ha esortato i paesi sviluppati a mantenere la promessa – finora fallita – di aiutare con 100 miliardi di dollari all’anno gli attori a basso reddito nelle loro azioni a favore dell’ambiente. A Sharm el-Sheikh, la Cina si intesterà la difesa di quei paesi che chiedono maggiore supporto, soprattutto schierandosi contro Stati Uniti e Unione europea.

L’Unione europea traina ma zoppica

Un altro attore rilevante presente in Egitto è l’Unione europea, con i rappresentanti delle istituzioni di Bruxelles – tra cui la presidente della Commissione Ursula von der Leyen – pronti a farsi sentire a Sharm el-Sheikh. L’Ue tenterà di incoraggiare l’aumento dei contributi annuali collettivi di 100 miliardi di dollari entro il 2023, così come la riduzione degli incentivi per i combustibili fossili e il raddoppio dei finanziamenti per l’adattamento ai cambiamenti climatici da qui al 2025.

La guerra in Ucraina, tuttavia, ha avuto conseguenze anche sull’approccio tendenzialmente positivo dei paesi membri dell’Ue nella lotta contro il riscaldamento climatico. Una delle risposte europee alla crisi energetica è stato il piano RePowerUe, per aumentare gli investimenti sulle energie rinnovabili e rendersi meno dipendenti dai combustibili fossili russi.

Nel luglio del 2021 la Commissione ha presentato il maxi pacchetto “Fit for 55”, che racchiude diverse proposte con l’obiettivo di ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento rispetto alle registrazioni del 1990 entro il 2030. Tuttavia, dopo un passaggio all’europarlamento, la proposta non ha ancora trovato luce, accumulando ritardi che ne hanno minato la sua approvazione.

Il vicepresidente per il Green deal Frans Timmermans – che guiderà la delegazione europea – ha timidamente aperto alla possibilità dei risarcimenti del “loss and damage”, anche se la Commissione ha promesso in maniera più vaga di cercare «soluzioni più efficaci per soddisfare le diverse esigenze dei paesi più vulnerabili di tutto il mondo». 

I ministri dell’Ambiente dei 27 membri Ue si sono riuniti prima dell’inizio dei lavori della Cop per concordare una posizione comune. Nel documento conclusivo di 42 punti si legge che «sia l’ambizione sia l’azione sono essenziali per assicurare la credibilità e l’implementazione degli accordi di Parigi». Lo scopo è far sì che l’obiettivo degli 1,5°C di aumento della temperatura entro la fine del secolo rimanga alla portata. In Egitto Bruxelles cercherà di trainare il più possibile gli altri attori globali.

Il titubante Regno Unito

Nonostante le turbolenze passate negli scorsi mesi, il nuovo primo ministro britannico Rishi Sunak ha partecipato all’evento egiziano. Inizialmente aveva comunicato la sua assenza, anche per via delle scadenze e del lavoro da compiere dopo le dimissioni burrascose di Liz Truss, ma alla fine il premier ha voluto essere della partita. «Non c’è prosperità a lungo termine senza agire sul cambiamento climatico. Non c’è sicurezza energetica senza investire nelle rinnovabili», ha spiegato Sunak.

Da Londra il messaggio lanciato è stato chiaro: bisogna portare avanti l’eredità della Cop26 organizzata dal Regno Unito. Ma la differenza rispetto a un anno fa, quando in teoria erano stati presi impegni importanti sul clima, è la mutata posizione del paese. Oggi Londra è indebolita sul fronte climatico e internazionale dopo gli avvicendamenti a Downing Street e il tema delle presenze a Sharm el-Sheikh è emblematico.

Prima del dietrofront di Sunak, infatti, a far discutere è stata la querelle tra Truss e re Carlo III, con l’ex premier in carica solo per un mese e mezzo che si sarebbe opposta alla partecipazione del monarca, da sempre attento alle questioni ambientali. Carlo nel frattempo ha organizzato un ricevimento a Buckingham Palace con duecento persone, tra leader, attivisti e delegati. Ma in compenso in Egitto è stato invitato a intervenire Boris Johnson.

A causa dell’emergenza energetica, però, anche Londra ha scelto di tornare sui propri passi aprendo a nuove estrazioni di gas e petrolio nel mare del Nord e tenendo in piedi le centrali a carbone. Inoltre, il Regno Unito è tra i maggiori paesi sviluppati sotto accusa – insieme a Stati Uniti, Canada e Australia – per non aver raggiunto la quota annuale di finanziamenti per il clima, secondo quanto riporta un’analisi di Carbon Brief sul Guardian.

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L’India senza Modi reclama fondi

L’India è il terzo paese più inquinante al mondo e di recente ha approvato alcuni impegni climatici per ridurre le emissioni del 45 per cento entro il 2030 e per aumentare l’utilizzo di rinnovabili. A Glasgow, l’anno scorso, New Delhi aveva anche promesso di raggiungere la neutralità carbonica nel 2070 (dieci anni dopo rispetto a quanto previsto dalla Cina), una data che a molti è sembrata troppo lontana. 

Intanto, però, il paese ha optato per riaprire decine di miniere di carbone e ampliare le centrali già in uso. D’altronde l’India è ancora fortemente dipendente dal combustibile fossile dal costo minore e più inquinante: un anno fa circa il 70 per cento del fabbisogno elettrico di tutto il paese derivava infatti dal carbone.

L’altro grande leader assente alla Cop27, oltre Xi Jinping, sarà proprio il premier indiano Narendra Modi. New Delhi è in prima linea tra i paesi in via di sviluppo a richiedere i risarcimenti per i danni del cambiamento climatico, così come per finanziare la propria transizione ecologica. Il ministro dell’Ambiente Bhupender Yadav ha auspicato possa esserci un costruttivo negoziato proprio sul tema “loss and damage”.

Inoltre, a Sharm el-Sheikh l’India spingerà per promuovere anche all’estero il mantra “lifestyle for environment” (LiFE), un motto ideato da Modi per sensibilizzare a livello individuale e collettivo sui temi climatici e la protezione dell’ambiente. 

Russia, Brasile e Australia

Mancherà anche Vladimir Putin. Come già scritto, la guerra in Ucraina scatenata dal Cremlino ha causato la grave crisi energetica che ha costretto molti paesi ad accantonare, rallentare o sospendere i progetti green per la transizione ecologica. I delegati russi ci saranno comunque, anche se per evidenti ragioni si troveranno a rappresentare una nazione al momento isolata nel contesto internazionale. 

Ruslan Edelgeriyev, consigliere del presidente russo sul clima e capo della delegazione di Mosca, ha ammesso che il problema del riscaldamento globale esiste e che «deve essere risolto lavorando insieme». Tuttavia, i russi non si aspettano nessuna svolta importante dalla Cop27. Edelgeriyev ha parlato anche della necessità di «depoliticizzare» la cooperazione internazionale sul contrasto ai cambiamenti climatici. 

Significativa, invece, la presenza in Egitto di Luiz Inacio Lula da Silva, nuovo presidente del Brasile eletto a fine ottobre ma non ancora in carica. Il paese sudamericano ha perso terreno negli ultimi anni sulla questione ambientale sotto la guida di Jair Bolsonaro, con l’aumento del disboscamento della foresta amazzonica e lo scetticismo del presidente riguardo agli effetti del riscaldamento globale. Lula ha promesso un cambio di rotta drastico: «Il Brasile è pronto a riprendere il suo ruolo di primo piano nella lotta alla crisi climatica». L’obiettivo è la deforestazione zero in Amazzonia ed è il messaggio che Lula porterà anche a Sharm el-Sheikh.

Da menzionare anche il ruolo dell’Australia. Il governo laburista di Anthony Albanese ha dato una svolta all’impegno del paese rispetto agli scorsi anni per ridurre le emissioni, ponendo obiettivi ambiziosi anche per quanto riguarda la fine delle deforestazioni. Inoltre, Canberra vuole ospitare la Conferenza del 2026 insieme ad altri paesi del Pacifico. Tuttavia, non è prevista la presenza di Albanese in Egitto e il processo di cambiamento per l’Australia sarà complicato, visto che rimane il più grande esportatore al mondo di carbone.

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