Di Francesco si può dire «è il primo papa che...». È il primo papa gesuita, il primo che è nato e viene da una metropoli, il primo che ha insegnato psicologia, il primo che sa farsi una lavatrice, il primo con una sorella divorziata, il primo diventato prete dopo il Concilio. Adesso è anche il primo papa ad avere vinto le elezioni presidenziali americane.

Non tanto perché è stato eletto un presidente cattolico, o perché è stato sconfitto un uomo che Bergoglio disprezza. Ma perché l’amministrazione Trump, mettendo perfino in discussione il principio di separazione fra chiesa e stato, aveva messo nel mirino l’unità della chiesa cattolica. Cioè la cosa che il papato deve difendere.

Per alcuni aspetti, infatti, la politica “religiosa” di Trump obbediva ad alcune regole standard del sistema democratico. In democrazia ogni attore deve parlare qualche parola di quella lingua speciale che è il cattolico: Trump ne conosceva alcune, specie quelle del conservatorismo pro life con cui interloquire con la più grande confessione del paese.

In democrazia ogni governo deve avere una politica ecclesiastica, che, secondo una aurea definizione del cardinal Silvestrini, consiste semplicemente nel «rendersi prevedibile». La chiesa di Roma, specie nei suoi organi centrali, detesta infatti l’improvvisazione e non ama calcolare le medie: non sopporta dunque chi alterna blandizie a scortesie, non teme gli antagonismi purché stabili e non si schermisce dei baciapile, purché costanti. E Trump era a suo modo prevedibile.

Produrre lo scisma

Ma c’era una dimensione storicamente inedita del trumpismo ed era il suo tentativo di dividere la chiesa cattolica. Produrre nel cattolicesimo lo scisma che ha già diviso il mondo protestante, dove si è formata una corrente di chiese “evangelicali” (per distinguerle dalle chiese evangeliche, che sono quelle di tradizione luterana).

L’amministrazione Trump voleva creare un cattolicesimo “cattolicale” in tre modi. In primo luogo sfruttando il risentimento contro Francesco di un tradizionalismo integrista che ha trovato in un ex nunzio come monsignor Carlo Maria Viganò una voce invasata e irresponsabile.

In secondo luogo finanziando il coordinamento e la presenza nel web di giornalisti mercenari, di miserabili sedicenti ratzingeriani (Ratzinger li avrebbe inceneriti con due citazioni): e con loro creare quel rumore bianco che in 0.57 secondi offre 163mila siti a chi cerca “papa Francesco eretico”.

In terzo luogo mandando come suo apocrisario a Roma, Steve Bannon: il quale, ingannando perfino la segreteria di Stato, aveva dato il nome del documento del Vaticano sulla libertà di coscienza odiato dai lefebvriani (Dignitatis humanae) a un centro studi per ammiratori del sovranismo e del razzismo, coinvolgendo nella propria campagna per fare della lega il partito “cattolicale”, rampolli leghisti e prestanome mafiosi.

La teologia del bubbone

Infine, forse soprattutto, il mondo “cattolicale” ha tentato di sfruttare la “teologia del bubbone” di papa Francesco in modo astuto. Il pontefice infatti è convinto che nella chiesa cattolica, a livello locale e centrale, ci siano due problemi lasciati imputridire per anni: la copertura degli stupratori di bambini da parte di vescovi o inetti o protagonisti di quegli stessi delitti; la indifferenza davanti a ruberie commesse dentro e tutt’attorno alla amministrazione dei beni della Santa sede.

Questioni risalenti nel tempo, che Francesco ha da tempo classificato – appunto – come «bubboni». Bubboni che devono esplodere o essere incisi per poter spurgare. Non è che Bergoglio non sapesse che questo procedere accentuava i rischi di abusi, favoriva la delazione, entusiasmava l’egopatia di chi vede ovunque mali di cui sentirsi il guaritore.

Ma ha sempre pensato che l’odore disgustoso del putrido è la premessa della guarigione. E l’amministrazione americana ha così potuto usare tutto ciò che il gesto giustiziere del papa forniva – anche a costo di scavalcare le indiscrezioni schiaffando 440 pagine contro McCarrick in pdf sul sito vatican.va – come argomenti per dipingere una crisi del governo della chiesa, favorire l’eversione perfino di cardinali, guidare il suo personale Kulturkampf che appartiene a pieno titolo a quel populismo al quale il pontefice argentino, perfino nella Fratelli tutti, offre qualche attenuante.

Segno di questa priorità del Kulturkampf a cui Joe Biden ha sbarrato la strada era stata la nomina di Amy Coney Barrett alla Corte suprema. Figlia di un diacono permanente, la nuova giudice e la sua famiglia sono membri di “People of praise”, il movimento nato nel 1971 dall’esperienza di Kevin Ranaghan che aggregò un gruppo di quelli che egli stesso descrisse come catholic pentecostals.

Amy Coney ha esercitato il ministero di “women leader” in questo movimento in cui i maschi hanno un direttore spirituale che per le donne sposate coincide col marito: cattolica esemplare, sette figli di cui tre adottivi e uno disabile la giudice non ancora cinquantenne è l’esempio di un cattolicesimo conservatore, che fa della penalizzazione dell’aborto una richiesta e al quale Roma aveva finora dato solo un segno di stima nominando uno dei confratelli della giudice come vescovo di Portland.

Ed era in quel cattolicesimo che Trump cercava non persone da riconoscere, ma figure da cui essere riconosciuto. Questo disegno è stato battuto da Biden che ha saputo muoversi senza enfatizzare le posizioni di quei vescovi che volevano negargli la comunione per la sua posizione sulla legislazione sull’aborto. E così il papa ha vinto le sue elezioni presidenziali, per la prima volta.

© Riproduzione riservata